Napoli è una puttana.
In tanti l’hanno avuta: greci e bizantini, spagnoli, normanni, francesi, principi germani e barbari goti, pirati saraceni e mercanti arabi, austriaci, piemontesi e soldati americani; chi l’ha presa con la forza o con l’inganno, chi con vaghe promesse e chi – semplicemente - pagando. Lei a tutti ha dato qualcosa e da tutti ha preso qualcosa.
E’ una regina stracciona, una madre crudele che caccia via i suoi figli ma, poi, non li lascia andare; le sue rughe sono tagli nella carne, le sue ferite bubboni purulenti. E’ la città porosa, un formicaio di caos che rinsecchisce al sole eppure capace di trafiggerti con una improvvisa Bellezza che toglie il fiato; un popolo intriso di Storia ridotto a plebaglia senza memoria, una borghesia imbelle e un tumore che si chiama “camorra”. Ribollente di lava e di mare, se non ci sei nato qui, mi dispiace, ma non puoi capire.
E vaffanculo se ti sembro insopportabilmente retorico. Ci hanno provato in tanti a raccontarla senza riuscirci, ti pare che lo possa fare meglio io?
Come lo racconti un posto dove sono nati un Croce e un Nuvoletta, un Vico e un Lauro, Merola e Caruso, la Fonseca-Pimentel, Totò, Agostino “o’ pazzo”, Vanvitelli, il Di Sangro principe di San Severo, Re Franceschiello, Carosone e mille altri, e dove hanno voluto le loro tombe Virgilio e Leopardi?
Contraddizione è la divinità che regge su questa terra.
E solo qui sono possibili certe storie: E.A.Mario che vendette i diritti delle sue opere per un pezzo di pane ai “milanesi” e che lavorò alle poste per tutta la vita mentre tutta Italia cantava la sua “Canzone del Piave”; Masaniello, rivoluzionario, eroe, despota, pazzo, visionario e poi santo che voleva fare di piazza Mercato un porto; Caccioppoli genio della matematica e nipote di Bakunin, che morì suicida tradito dai due grandi amori della sua vita, la moglie e i numeri; il rancore sordo tra Eduardo e Peppino. E tutte la altre.
E, sì, anche quella di Gaetano D’angelo, detto “Nino”, primo di sei figli di una delle tante famiglie di questa città. I soldi non bastano e la scuola fa solo promesse che non può mantenere; così Gaetanino si ingegna: fa il commesso in un negozio di scarpe, il gelataio, il garzone; piccoli lavoretti mentre si prepara ad altro.
Ad altro perché, a Nino, in quella scuola che non sa mantenere le sue promesse, qualcuno (per celia o per convinzione non lo so) un giorno ha detto: “tu sei un poeta che non sa parlare” e, quelle parole – Nino – se le è portate dentro per tutta la vita. Senza quelle parole, quel ragazzotto, la speranza di una vita diversa se la sarebbe cercata altrove, magari in posti sbagliati e, invece, quella speranza - lui – la va a portare sotto la Galleria Umberto I, lì nel centro di Napoli.
Anche io, giovane strimpellatore spavaldo e boccalone, l’ho frequentata la “Galleria” ed ho imparato la “parlesia”, la parlata dei musicisti. E, quello, è un altro posto che, se non ci sei mai stato, è impossibile da immaginare e da descrivere. File di musici ed aspiranti cantanti e “artisti” di ogni tipo e poi dj, giornalisti, discografici, manager ed “organizzatori”, crogiuolo di varia umanità, fumo e odore di caffè, affari, intrallazzi, mercato di sogni.
E soldi, tanti soldi.
Perché con quella roba lì girano un sacco di soldi dei quali, oltretutto, molti sono “figli di nessuno” (stiamo parlando di una delle più funzionanti e rodate “lavatrici” della camorra e non solo).
A Nino gli fanno fare un po’ di gavetta e, poi, al momento giusto chiedono del denaro, perché il primo disco te lo devi pagare di tasca tua. E, così, arriva “'A storia mia ('O scippo)” il suo primo 45 giri e, poco dopo, l’album con lo stesso titolo. E fa subito il botto: oltre 50.000 copie! Certo, roba che non esce fuori dai confini campani ma quello di Nino, che non ha ancora 20 anni, è già un nome di punta in quell’ambito.
Ora, il nostro, ha una voce intonata ma neanche tanto potente e neppure così espressiva; ecco – a dirla tutta – anche un filino anonima; e sul “physique du rôle” pure ci sarebbe da dire: certo è biondo con gli occhi azzurri come un vikingo, ed ha già il suo inconfondibile “caschetto”, ma è alto poco più di un tappo di bottiglia ed è “secco” come uno stecco, e ha quella “faccia un po’ così” di chi ha geni del Maghreb incardinati nel proprio DNA. Ma qualcosa quel ragazzotto ce l’ha, vogliamo chiamarlo “talento”?
Ecco, magari qualcuno – con un pizzico di malevolenza – potrebbe suggerire che, il giovanotto, ha anche qualche congiunto che fa parte del “giro” (tipo il suocero, Vincenzo Gallo), ma sarebbe solo una insinuazione senza fondo: si tratta davvero di roba da poco e un sacco di altri “cantanti” con ben altri santi in Paradiso stanno ancora a fare i matrimoni.
La svolta vera, però, arriva col cinema. E, qui, va raccontata – brevemente – un’altra storia e, perdonami paziente lettore, se abuserò ancora (come mio solito) del tuo tempo, ma, fidati: ne vale la pena.
Ciro Ippolito è un genio cialtrone, un irregolare obliquo e sfuggente che passa da Rossellini alle sceneggiate, da soggiorni nelle patrie galere a cause milionarie con la 20th Century Fox, dal Teatro di Mastelloni al delirio non-sense con gli Squallor e un mucchio di altre robe. Siamo nel crepuscolo di quel decennio difficile che sono stati gli anni ’70 e sta venendo fuori quella sorta di “Italian exploitation” che passerà agli annali della storia del nostro cinema col nome (bruttarello a dirla tutta) di “polizziottesco”, Ippolito capisce che, tra una Milano che si ribella, una Roma violenta e una Genova a mano armata ci sta benissimo anche una Napoli calibro 9 (più serenata) e che, tra il Merli del commissario Belli ed il Milian del “Monnezza” ci sta benissimo anche la faccia di Mario Merola.
E ci vede giusto.
Così il faccione del “nostro” Mario esce prepotentemente al di fuori dell’ambito – ricco ma pur sempre ristretto – prettamente regionale per imporsi a livello nazionale; e quel successo si porta dietro pure tutta una “napoletanità” che comincia a dare frutti anche al botteghino. Così, tra i Mario Trevi, i Nunzio Gallo, i Carmelo Zappulla, i Mario e Sal da Vinci, a passare all’incasso troviamo pure il nostro Nino ed a qualcuno viene quasi naturale l’idea che Nino e Marione possano essere una gran bella coppia: Nino, l’erede designato del grande Mario.
L’idea sembra buona e ne vengono fuori due film: “Tradimento” e “Giuramento” (inutile dire che, per il vostro umile scriba, si tratta di due “classici”), ma Marione non ci sta: il “piccirillo” lì gli sta facendo ombra e non sa stare al suo posto; così Mario se ne troverà uno meno “ingombrante” come figlioccio, il tastierista del suo gruppo, tale Gigi D’Alessio).
Poco male, ormai Nino è lanciato. Nel 1983 esce “’Nu jeans e ‘na maglietta” e Nino fa il botto: oltre un milione di copie vendute! E, ora, per quella roba là non si può più parlare solo e semplicemente di “canzoni napoletane”, questa roba è altro, ci vuole un nuovo nome: è così che viene fuori il genere “neomelodico”.
Per tutti gli anni ’80 e parte dei ’90 a Nino riesce una cosa incredibile: con quella faccia un po’ così, con quella voce un po’ così, con quel background un po’ così, diventa una Pop Star di livello nazionale (e non solo: nell’86 arriva anche all’Olympia di Parigi) ed un sex symbol. Sono quegli anni là, tra lustrini e giacche con le spalline, Duran Duran e Ridge di “Beautiful”, il caschetto biondo di Nino non ci sfigurava minimamente!
Ma, poi, il tempo passa (ed anche le mode, grazie a Dio) e, volenti o nolenti, si deve crescere ed anche cominciare ad invecchiare. Certe cose te le dice già lo specchio ma se non le capisci da solo ci pensa la vita. Per Nino D’Angelo la svolta arriva con la morte dei suoi genitori, la crisi di idee e di pubblico è già iniziata da qualche tempo e, a seguire, depressione e, pare, un tentativo di suicidio. A tirarlo fuori saranno la famiglia, la Fede e la Musica.
Via il caschetto biondo, via il glamour e via pure tutta quella roba che sono diventati i neomelodici e tutto il giro che gli ruota attorno.
Il disco della svolta si intitola “Tiempo” e non vende quasi nulla, ma a Nino non gliene frega niente: la gente capirà. O guaglione è cresciuto e indietro non si può più tornare.
La critica, però, se ne accorge e qualche artista sveglio, pure. Il primo ad alzare il sopracciglio è Goffredo Fofi, poi i Bisca e Roberta Torre capiscono che è il momento di chiamarlo; e così arrivano anche i premi ed i riconoscimenti, dal Nastro d’argento al David di Donatello fino al Globo d’oro (tutti per la colonna sonora di “Tano da morire”). Però non si sbagli a comprendere: qui si deve parlare di evoluzione, di crescita e non di cambiamento. D’Angelo è sempre lo stesso, anche lavori di indubbio spessore come la colonna sonora di “Tano da morire” e questo “Terranera” che viaggia dalle parti del capolavoro (e che non si prenda alla leggera tale affermazione), sono in perfetta continuità con “’Nu jeans e ‘na maglietta” o “Fotografando l’amore”; è lo stesso D’Angelo a sottolinearlo portandoli in concerto tutti insieme e non vergognandosi neanche delle numerose cadute che hanno costellato il suo cammino (una per tutte, “Gesù Cri”, terrificante cover di “Let It Be”).
Nino D’Angelo è un autore (autore, non soltanto interprete) popolare e non Pop, e si cerchi di capire la differenza: le molte anime musicali della “città porosa”, che non hanno mai saputo realmente dialogare tra di loro hanno sempre usato il “popolare” come ingrediente – anche principale – ma aggiunto ad una base (fosse il folk della NCCP o il jazz-rock di Napoli Centrale, il dub di Almamegretta o il rap di Co’Sang) che ne stabiliva un rapporto dialettico, che sul quel “popolare” cercava di “portare avanti un discorso”. Persino un Pino Daniele o un Massimo Ranieri in quella “schiuma” non ci immergono le mani.
D’Angelo no. D’Angelo è quella roba là, una roba che non puoi neanche valorizzare tirando fuori la “tradizione”. Qui non si corre proprio il rischio che si possa sentire vago odore di intellettualismo (e del paternalismo che da sempre ne accompagna il suo piegarsi al popolare); qui il kitsch è un rischio che bisogna correre, un ingrediente da saper dosare, per certi aspetti persino una qualità; mi verrebbe da dire, con artificio retorico volutamente eccessivo, che D’Angelo supera “a sinistra” Pasolini ma, temo di poter essere frainteso.
Ma, se non volete dare retta a queste mie farneticazioni, allora provate solo a dare un paio d’ascolti a questo “Terranera”. Che io lo ritenga un piccolo gioiello l’ho già detto e che il nostro uomo abbia talento pure; se vi siete messi in casa almeno un paio di chicche dal catalogo Luaka Bop o Real World (e Gabriel con D’Angelo ci ha pure provato a collaborare) questo “Terranera”, con quella roba, ci sta insieme benissimo. Persino in quel piccolo difetto che quel tipo di produzioni portano con sé: il sentore di un lavoro di produzione fin troppo “furbo”, che un certo residuo di “unto” popolare sia stato fin troppo bene ripulito, che nei sobborghi di San Juan o di Lusaka (così come di Napoli) non si suoni proprio proprio così.
Magari se si vuole un pizzico di sincerità maggiore la si dovrebbe cercare nell’epos straccione di un “Aitanic” o di un “O schiavo e o re”.
Ma è una critica ingenerosa.
Se, in “Terranera” si scorge un pizzico di furbizia, quello è un ingrediente che ci sta. Ci sta. Fidatevi. Ve l’ho detto: tutti noi che siamo nati a Napoli, alla fine, siamo figli di una puttana.
Dedicato a @Withor perchè una promessa è un debito.
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