Nino Ferrer ha avuto una carriera anomala, fatta di successi molto popolari, canzoncine di quelle che si stampano facilmente in testa e che probabilmente rappresentano e rappresenteranno il suo nome nel mondo musicale. Ma nel 1971, forse sull’onda lunga del progressive, chiamò a sé una manciata di amici, jazzisti, musicisti dell’elite francese ai quali presentò una serie di spartiti, che per particolarità e per i temi estremamente variabili in essi sviluppati, piacquero assai e in poche settimane il disco fu pronto.
Il risultato fu decisamente nuovo, anche se già dal precedente live “Rats and Roll” si cominciavano ad apprezzare nuovi arrangiamenti, più complessi e studiati di brani già precedentemente editi sotto forma di “canzone” e di alcuni brani finirono anche in questo lavoro, con il compimento definitivo che solo la registrazione in studio può dare.
Questa serie di elementi, compiuti e approfonditi, generano il salto di qualità che da sempre esiste nel passare da un album inteso come raccolta di 45 giri e un album come entità a sé stante, fatto per dire qualcosa di più organico, mentalmente e concettualmente più ricco.
Come nella copertina, trasposizione di un dipinto di Claude Verlinde, dai toni cupi e favolistici e in qualche modo specchio dei contenuti musicali, anche i brani si dilatano e si riempiono di chiaro-scuri, di movimenti interconnessi a mo’ di suite, dove jazz, blues, psichedelia e progressive si fondono ad elementi classici e della canzone francese, generando un compendio musicale personale e molto vario.
Non solo voce, come ovvio per un cantautore, ma lunghi passaggi strumentali arricchiscono di belle e forti sensazioni l’ascolto, grazie anche a spunti R’n’B, specie nell’impostazione lirica e nell’ampio uso dell’organo Hammond, con vaghe notazioni à la James Brown. Altro elemento di completamento, ma indispensabile per l’epoca, è il Mellotron. La tastiera che – già da sola - consente all’ascoltatore di collocare in maniera precisa sensazioni d’ascolto temporalmente molto definite.
“Metronomie” è anche brano d’apertura e mi piace sottolineare che se tutto il disco fosse stato dello stesso spessore, saremmo di fronte ad un’opera ben vicina al capolavoro. Sono quasi dieci minuti di musica varia e di grande valore e risultato. Il brano è quasi interamente strumentale e comprende porzioni di musica sperimentale e piuttosto complessa, ma in maniera misurata, senza eccessi e sbrodolamenti, sembra quasi che l’autore abbia voluto rappresentare quello che era il suo limite espressivo di quel preciso momento e che andare oltre sarebbe stato un qualcosa che non poteva appartenergli. Anche gli altri brani, però, contengono passi notevoli e altrettanto ben impostati, semplicemente sono più vicini alla forma delle canzone, pur più elaborati e artisticamente più elevati dallo standard tipico dello “chansonnier”. In questo senso riassumo in poche parole gli altri brani, a partire da “Cannabis” dove dallo inquieto mortaio dei suoi avi genovesi, salta fuori una salsa con blues, spiritual, jazz, canzone d’autore e un finale sperimentale, il tutto impreziosito da una serie di scorribande di Hammond davvero piacevoli. Da menzionare una delle canzoni di maggior successo dell’autore, da noi poco nota ma che spopolò in Francia. Si tratta di “la Maison près de la fontaine” ricca di riferimenti al gospel e al rhythm and blues americano. La chiusura del disco è affidata, invece, al cupo blues di "Pour oublier qu’on s’est aimé", brano risalente ai primi anni ’60, già inciso in altri album, ma qui nella sua veste migliore capace di mettere in mostra il più straziante e profondo aspetto dell’amore.
Nel pur stra-abusato mare dei “capolavori”, anche questo potrebbe avere un suo posticino, vuoi per l’anno di uscita, vuoi per la genialità degli intenti, vuoi anche per la riuscita sopraffina. Prima vi incuriosirà, poi vi piacerà.
p.a.p.
sioulette
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