La cronaca di una morte annunciata. Era Kurt Cobain, un ragazzo fragile e indifeso, un angelo in vita che aveva la pelle troppo sottile, che aveva uno sguardo da bambino braccato dal mondo e che non contava un cazzo di niente. La morte annunciata è proprio "All apologies". Una canzone straziante, un urlo utopico di una rivolta privata sempre troppo ingombrante. E' stata composta nel 1990, ma i Nirvana la registrarono soltanto il 1 gennaio 1991 a Seattle. Cobain dedicò la canzone alla moglie Courtney Love e alla figlia Frances Bean, infatti disse a Michael Azerrad che il testo non centrava nulla con la famiglia ma che la melodia era destinata a loro. Il 18 novembre 1993 Cobain annunciò un concerto unplugged per MTV, una sorta di testamento cololettivo di morte, nel quale eseguì una versione lancinante proprio di "All apologies". Qui, era già morto. Era già il simulacro di se stesso, ci aveva abbandonato. E morì il 5 aprile 1994 a Seattle a soli 27 anni, proprio come Jimmy Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison. E fu l'uscita di scena mitizzata per un cantante di una generazione che aveva bisogno di un martire, pronto a immolarsi prima per poi essere venerato e mai sufficientemente ringraziato. Era un artista dotato di una sensibilità fuori dalla norma, aveva quello sguardo che profumava di spirito adolescenziale, e quindi di ribellione, di trasgressione, di genuinità. Era l'antieroe perfetto; il mezzo giusto per coniugare utopia e realtà, per innamorarsi di una favola brutalmente sconfitta quanto meravigliosamente grezza, sporca. Era il megafono del rovesciamento di un sistema non per una convinzione politica, statale, ma perchè non se ne poteva più delle ipocrisie, delle finzioni, delle doppie facce. E' stato un precursore di tutto, un cantante eccelso, un drogato fino in fondo e da sempre. Non per moda, non per fare la rock star da protocollo, ma per necessità; era un modo per convincersi che il dolore potesse conoscere tregua, che il malessere che lo attanagliava potesse essere una madre più accogliente e meno matrigna. Era un'illusione, come tutta la sua vita, come tutta la sua arte. Il confine tra pubblico e privato, in lui, non c'era. Era un tutt'uno, era uno scorrere naturale e senza inibizioni. Quel suo modo di tenere la chitarra bassa, quel suo modo di suonarla con la mano sinistra era un segnale mandato al mondo che lui non era come gli altri. Che lui non era bollabile in un modo o in un altro, che definirlo in una determinata maniera avrebbe voluto dire espropriarlo da tutti i suoi demoni che lo tormentavano. Quella di Kurt Kobain era una rivolta di cuore e di pancia, l'iconoclastia accentuata che era come tendere la mano e non lasciarla cadere, e non farlo morire nella fagocitante solitudine. Kurt kobain è stato tutto; è stato il sogno e l'illusione, è stato l'appartenenza più pura. Kurt Kobain è stato soldato sceso in campo a combattere, per una generazione poco decifrabile e con poche speranze di conservazione.
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