“A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco.” Kurt Cobain - Lettera d’addio prima di spararsi. 1994.
“Com’è stato il concerto dei Nirvana?” Un ragazzo di 15 anni. Dieci giorni fa.
“Quasi 12 anni…” Io. Ieri.
Questi tre fatti si sono insinuati a poco a poco nel mio cervello. Scavando. Scavando. E ho deciso di scrivere…
Flashback. Una mattina nebbiosa di febbraio prendo il treno. Destinazione Modena. Per ascoltare i Nirvana. Sono grandi. Nevermind mi ha annientato. Ma non solo me. Mezzo mondo guarda a Seattle. Tutto viene da lì. Ora è il centro della musica americana e mondiale. Dopo i finti e laccati anni ’80. La rinascita del rock. Grezzo. Sporco. Pessimista. Decadente. Vero. Grunge. Mother Love Bone. Mudhoney. Nirvana. Pearl Jam. Alice in Chains. Screaming Trees. Soundgarden. E’ da poco uscito “In Utero”. Canzoni con minore impatto sonoro ma con uno spessore musicale notevole. Insomma, sono veramente stravolto. Ed ora vengono a Modena. Davanti al Palasport, sono emozionato, c’è aria tesa. Ressa all’entrata. Schiacciati. Tensione. Eccitazione. Si aprono i cancelli e tutti a correre sotto il palco. Per i posti migliori.
Poi entrano Kurt e i suoi due compari. Canzoni come frustate. Frustate sanguinanti. Kurt non ha voglia. O meglio, suona e canta al massimo. Ma non c’ è. Impugna la sua chitarra celestina. Guarda avanti a sé. Fisso. Capelli biondi davanti gli occhi. Lo guardo e penso: “Questo non gli frega un cazzo di noi, questo sta fissando la parete opposta del palasport” .
Sotto, i ragazzi si spingono l’uno contro l’altro. Una bolgia fumante. Ma per lui non esiste nulla. Ho la sensazione che sia di ghiaccio. Fisso. Bloccato. Un caschetto biondo che sferraglia la sua chitarra, che strilla sul microfono. Strilla, non canta. Le canzoni. Quelle dalle parti di Nevermind sono una mazzata. Grandi. Potenti. Selvagge. Ruvide. Ad un certo punto, nel mezzo del concerto succede qualcosa. Uno del pubblico, sotto il palco, lancia un giornale pubblicitario che distribuivano all’entrata. Sulla prima pagina c’ è la facciona del cantante canadese Brian Adams. Il bassista, tra una canzone e l’ altra, si ferma, vede il giornale ai piedi di Kurt. Si avvicina e lo raccoglie. Kurt non fa un piega. Krist Novoselic rivolgendosi a Cobain ridendo, gli dice qualcosa come: “Ehy, questi qua sotto dicono che tu non sei bello come Brian” . Mi fa tenerezza. Credo che voglia spronare in qualche modo il cantante. Spingerlo a qualche reazione. Kurt, sposta un attimo lo sguardo dalla parete opposta al bassista. Ma è una frazione di secondo. Attacca subito con la canzone successiva. Niente. Come as you are, Smell, Lithium... rimangono sotto pelle. Tecnicamente magistrali. Violente.
Il concerto finisce. Torno a casa alle cinque del mattino successivo. Felice e apatico. Un giorno, dopo meno di due mesi da quel concerto, un mezzobusto retorico di un TG mi dice che Kurt si è sparato alla testa. E ci dice, a noi fan, che si era rotto le palle di timbrare il cartellino. Giù una valanga di commenti. Tutti ad affermare che Kurt era un drogato, un depresso, un mezzo pazzoide, un povero coglione che voleva diventare immortale. Sbrodolano tutti commenti. Io sono attonito. E triste. Non è facile. Mi sento strano. Ho visto una rock star due mesi fa. Ora si è suicidato. Avrei voluto non aver visto quel concerto. Per non entrare a far parte di quella spirale che lo ha ucciso. Ma anche queste sono cazzate. E’ che, infine, non riesco a realizzare che uno come lui, un cantante riverito da tutti, uno che stava entrando nella storia del rock, uno all’apice della carriera si sia voluto e potuto ammazzare. Ma Kurt era una persona e non una rockstar.
Ho rimosso tutto per tanti anni mentre sempre più ragazzini giravano con le maglie stampate con la faccia bianca di Kurt. Come Hendrix. Come Morrison. Come Joplin. Solo un'altra faccia bianca stampata sulla maglietta di un ragazzino.
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