Tutti coloro che hanno tentato negli ultimi anni la strada della new world music, con nuove sonorità, come il trip-hop e il drum'n'bass, che si mescolano alle musiche tradizionali di Paesi e culture, si possono dividere, semplificando, in due grandi gruppi: gli "alchimisti" e i "chimici". I primi vanno un po' per tentativi ed errori, sperando di far venir fuori da queste estemporanee miscele la "pietra filosofale" , ma, in verità, di novelli Paracelso o Cagliostro in giro non se ne vedono molti. Altri, come Nitin Sawhney, agiscono più da scienziati, avendo ben chiaro quel è il risultato al quale aspirano e quali elementi metteranno insieme per raggiungerlo. Non per questo, sia chiaro, questi ultimi sono necessariamente migliori degli altri: mai fidarsi troppo della scienza; nel caso, però, di questo magnifico ultimo lavoro dell'artista indo-britannico, "Philtre", l'esperimento è, a mio modo di vedere, pienamente riuscito.

Il modello di musica del mondo che viene fuori dall'album risulterà, magari per taluni, un po' troppo studiato, ma è sicuramente di notevole forza evocativa e, allo stesso tempo, di grande effetto, coinvolgente, con brani, come "Dead Man", che sono una mirabile sintesi di tradizione e innovazione.
Nitin, "indiano de Londra", non è un "absolute beginner". Già con i suoi lavori precedenti come "Beyond Skin" (1999), consigliatissimo, e "Prophesy", aveva avuto modo di dimostrare le sue qualità di moderno DJ, di assemblatore musicale, di fine musicista, tanto che oggi è un apprezzato e molto richiesto compositore per teatro e cinema, oltre che attore. Quest'ultimo lavoro conferma le sue eccellenti doti di impareggiabile sintetizzatore di suoni. Il "filtro" (magico?) che adopera svolge la sua funzione perfettamente, facendo passare solo quegli elementi che consentono la fusione perfetta tra musiche del nord e del sud del globo: da quella orientale delle sue origini al blues, da quella gitana a quelle più urbane come l'elettronica.
Questo "precipitato", questa comune matrice soprattutto percussiva, rappresenta il collante dell'album nel quale si spazia e si viaggia senza sosta. Dei sedici brani, nessuno è uguale all'altro, ognuno tenta una strada, un "abbraccio": nel citato "Dead Man" il blues è la musica indiana si sposano a meraviglia; in altri episodi sembra prevalere l'etnico come in "Mausam", ancora la "mamma India", o in "Koyal", ma il tenue suono della drum machine, che funge da sfondo, sembra arrangiato da Del Naja dei Massive Attack; "Noches En Vela" rende omaggio ad una grande cultura europea, quella gitana, che si fonde con l'urban style del drum'n'bass in un brano davvero irresistibile: se qualcuno malauguratamente dovesse rimanere impassibile, sarebbe opportuno procedere con un check up.
Con "Thow" e "Flipside" è la black music in primo piano, di per sé già una sintesi culturale, un ponte tra due continenti. "The Scratch" è il pezzo più adrenalinico, quello nel quale i tamburi e il sitar della tradizione fraternizzano con le nuove percussioni elettroniche.
La vetta dell'album è, però, "Journey", brano cantato dal noto Vikter Duplaix, nella prima parte quasi una ballad alla Gino Vannelli degli esordi, che progressivamente vira, accelerando e divenendo una sublime pezzo da club.

La musica di Sawhney è un ottimo antidoto alle insensate barriere, ai beceri razzismi, alle chiusure grette; è utopia che si realizza, è il richiamo alle comuni radici umane, le uniche che contano veramente.
Cittadini del mondo, accomodatevi.

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