Qualche giorno fa ho comperato per pochissimi soldi, presso una bancarella di cianfrusaglie usate, questo ciddì di memorabile bruttezza, vero simbolo di un certo modo supremamente infantile ed inutile di fare musica rock e perciò degno, anzi perfetto per una recensione esplicativa a riguardo.
L'ispirazione all'acquisto mi era venuta dal ricordo del chitarrista in azione su quest'opera, l'italo americano Michael Angelo, conosciuto parecchi anni fa ad una fiera musicale in centro Italia, mentre si esibiva nello stand di chitarre Dean, suo sponsor. Michael era intento a smanettare preferibilmente su di un inusuale strumento, dotato di due manici in opposizione l'uno all'altro e sui quali faceva scorrere le dita contemporaneamente, usando quindi entrambe le mani e suonando in legato, senza pizzicare le corde non potendo logicamente usufruire di un terzo arto. Talvolta aggrediva le due tastiere da sopra (come si fa sul pianoforte) invece che da sotto... il tutto per lo più a velocità supersonica, accompagnato da rumorose basi heavy metal pre-registrate.
Un tipo simpatico... una bella faccia da napoletano figlio, o nipote, di emigrati; un virtuoso, un clown, un esecutore preciso e preparato all'ennesima potenza (laureato a Chicago in teoria e composizione), un mostro di tecnica, un capriccio di natura, una macchina.
Ed allora incapace, in quanto macchina, di suscitare la minima emozione musicale, intendo di quelle vere e buone, quelle per le quali gli appassionati spendono volentieri tempo e denaro nel loro assecondamento, ben diverse dall'evanescente stupore per il fenomeno da circo, per l'exploit estremo che ovviamente coinvolgeva me e tutti i presenti in quell'occasione.
Nella seconda metà degli anni ottanta ed ancora nei primi novanta, prima del repulisti operato dall'affermazione del genere grunge, prese piede, si sviluppò e si spinse alle estreme conseguenze un certo tipo di musica metallara del tutto controproducente la quale, invece di cercare ispirazione concettuale e feeling esecutivo, andava a mettere in primo piano scemenze tipo la massima quantità di note al secondo nell'assolo di turno, il riffone di chitarra qualunque, grasso e cattivo ma tragicamente sentito e risentito, le liriche messe lì solo per esibire le urla gratuite e l'estensione vocale del cantante, prive della minima urgenza comunicativa, persino l'aspetto e il vestiario odiosetti (tutto un fiorire di messe in piega, sguardi da bulletti e pose macho: il famigerato hair metal).
Chi non sopporta il rock più tosto ha gioco facile a puntare su quel periodo, supremamente simboleggiato da dischi come questo, per coprire di ridicolo questo genere, anche se le cose non stanno così ed anche quegli anni hanno visto uscire fior di bei dischi di musica pesante ma ispirata, coinvolgente e talvolta anche parecchio innovativa (un nome su tutti: King's X).
Nitro è il progetto glam/hair metal di Angelo insieme a Jim Gillette, un cazzone biondo che canta oscenamente starnazzando quasi tutto il tempo, produce il disco senza un briciolo di personalità tra cannonate di rullante e manierismi metal, si mostra sul libretto del cd in fotografie da bordello, coi lunghi capelli biondi dozzinalmente pettinati alla Greta Garbo e il faccione suino pieno di supponenza. Non c'è un perché in questi dieci pezzi di un anonimato raccapricciante, più l'undicesimo che è la sgasata finale in solitaria di Angelo, un milione di note sparate in cinquantadue secondi.
E' tutto sbagliato in quest'album (secondo ed ultimo della formazione, anno 1991), non c'è una melodia degna di questo nome, un riff efficace e ficcante... la grinta e la tecnica asservono il nulla, la potenza gira a vuoto, non crea nessun groove, non scalda il petto e lo stomaco. Non vi è altresì traccia di contributi dal punto di vista dell'originalità, oppure da quello della passione interpretativa, ovvero della devota e sentita riproposizione di uno standard del passato di nobile schiatta... niente. Quaranta minuti scarsi di frastuono epidermico e rozzo, talento e capacità di suonare ottusamente spalmati su stereotipi in grado si di metterli in mostra, ma anche di farli respingere in blocco e dimenticare, con noia.
La simmetrica pochezza della grafica di copertina e la cafonaggine del titolo ("Caldo, bagnato, grondante di sudore") dicono già molto: opera da museo degli orrori.
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