Ci sono dei giorni in cui per una serie di ragioni anche stupide sembra andare tutto male. E magari siamo solo al primo pomeriggio. Allora le cose da fare sono due: o si galleggia abbattuti e tristi ancora per qualche ora, oppure si cerca una medicina che ti svuoti la testa. Quel giorno optai per la seconda, così parcheggiai la macchina vicino al ponte sul fiume biondastro, e poco dopo entrai nel vecchio negozietto di musica. Ecco, in casi come questo, se cioè non stiamo cercando qualcosa in particolare ma solo di fregare un poco la vita,  tendiamo ad orientarci verso un reparto piuttosto che un altro in base allo stato d'animo. Il mio mi portò verso i vinili usati. La targhetta del reparto diceva : "Pop- Rock ". La mia testa disse: "Perché no?! Del resto vuol dire che c'è un po' di tutto? ". A dire il vero non volevo comprare nulla, avevo davvero pochissimo in tasca. Le copertine si susseguivano sotto le dita, con la polvere che svolazzava, facce sconosciute, conosciute, copertine orribili, copertine belle. Lo sfogliare si bloccò sopra una sagoma scura, immersa nella fredda luce arancione di una stanza. Un lampadario giallo di sospiri non miei ma ugualmente comprensibili. Sì, la copertina era molto bella, davvero suggestiva. Quel giorno io e lei sembravamo proprio i due pezzi vicini di un puzzle. Sopra c'era scritto in un rosso solitario e in giallo: "The Nits. Hat". Ignoravo quale dei due fosse il nome del gruppo e quale il titolo. E ovviamente non sapevo minimamente che mondo stava vivendo tra i solchi di quel vinile. Mi incuriosì però la data di stampa: 1988. La fine degli anni ottanta, dunque. Periodo sfocato ed anonimo, sembrava cadere proprio a fagiolo. Altro davvero non mi importava. E costava solo 3 euro. La cosa era fattibile, ormai era deciso, del resto ogni tanto bisogna seguire le intuizioni. Andai al bancone tirando fuori dalla tasca una delle recenti invenzioni del mondo, e pagai. Non potevo rimanere deluso, il puzzle non aveva mai mentito in passato.

Ormai era quasi buio. A casa misi su il vinile, in attesa del mondo musicale che sarebbe venuto di lì a pochissimo. Di solito la prima volta che ascolto un disco sono sempre incuriosito dall'attacco. Per esempio a suo tempo, prima di premere play ed ascoltarlo, mi dissi: "Allora, 'Faust I' è considerato uno dei massimi capolavori della musica più recente, chissà come può iniziare?". E in effetti quel sibilo non mentì. Questa volta invece, con il vinile misterioso, l'attacco sembrò più semplice di quanto si potesse immaginare. Ero salvo. "The train" mi fece pensare ad una classica ballata folk, non me lo aspettavo, a dire il vero. Però l'atmosfera generale era più sospesa e rallentata, adatta alla sera. La voce del cantante mi fece pensare ad uno strano Lou Reed, così come il brano "The Dream". Ci sentivo dentro un po' di "New York" e un tocco dei "Blue Nile" di "Hats". In effetti i cappelli c'entravano anche qui. Il quinto brano del disco, proprio "The Hat", sembrava venir fuori direttamente dalla testa di Paul Buchanan, ma l'effetto finale era semplice e più comprensibile, in fin dei conti era più mio. Con la batteria leggera ma sempre pulsante, e il basso e la chitarra ad intarsiare candidamente il progressivo avvicinarsi della sera. A completare il tutto gli ottimi affreschi dipinti in "Blue", "The Bauhaus Chair" (che strizza l'occhio ad Al Stewart) e "The House"; bei ritornelli, atmosfere sognanti, il tutto gradevolmente accompagnato da tastiere essenziali e ben utilizzate. Quel disco era proprio quello che ci voleva: una schietta e dorata semplicità, in quello che fu un momento qualunque di passaggio di questa vita.

L'ultimo brano finisce con le parole "Time's slipping away...", il tempo se la sta svignando. E' vero, questo è assolutamente innegabile.

Ma quel giorno la vita un poco l'avevo fregata, e lo dico senza rancore, da suo amico di vecchia data.

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