L'album in questione è una delle più interessanti proposte jazz del 1968 anche se le due registrazioni dal vivo risalgono alla maestosa serie di "concerti free" dell'ottobre 1966 con partecipazioni del calibro di Albert Ayler, Sun Ra, Burton Greene, Sonny Simmons. Era l'embrionale periodo d'esordio discografico del sassofonista di New Orleans, da prima in quartetto in studio (Apotheosis), poi dal vivo con una formazione allargata a cinque elementi dove spiccano, tra i classici strumenti del genere, il violoncello di Cathrine Norris ed il piano come sempre elevato a massicciata alla Cecil Taylor di Dave Burrell.

Se in studio Noah Howard tende a rannicchiarsi in un ermetico gioco di sovra-acuti e modulazioni all'ancia, in concerto rivela una sapiente maestria al sax alto con sinuose armonie continuamente sovrapposte ad improvvisazioni scattanti, repentini cambi d'umore che si allacciano in un crescendo fluido e disincantato al registro ritmico-sperimentale di John Coltrane. A quest'ultimo dedica una performance di diciannove minuti, quello che rimane con molta probabilità il suo capolavoro storico, denso di patos e talmente tragico nello sviluppo da preannunciare quasi l'improvvisa dipartita del Genio di Hamlet che avverrà di lì a pochi mesi.

Gradualmente la forma suono-musica si edifica con movimenti circolari, restringendosi ed aprendosi sia nel tempo che nello spazio, in conflitto con la stasi del violoncello che è poi il punto fragile del collettivo; questo richiama gli archi dell'Ornette dei vecchi concerti newyorkesi, quasi a volerlo deliberatamente imitare. Arrischiato, il sax di Howard guida gli altri solisti in ripetizioni ritmiche con buona dose di melodia che lo distanzia, almeno dal vivo, dai colleghi disarmonici. Esso è maestro indiscusso dell'edificazione paziente e complessa di modelli elementari che divengono intreccio di compatibilità intransigente, allontanandosi pertanto in maniera discreta e viscerale dalla risonanza violenta di certo free jazz anarchico.

Noah Howard, come Coltrane, rimase intimamente avvinto dalle fluenti linee melodiche di Charlie Parker e, come Coleman, seppe ben reagire alle regole dell'improvvisazione tradizionale proponendo un approccio alla nuova musica nera non necessariamente reazionario, cosa che gli valse a posteriori la simpatia dei più emotivi affezionati del genere. Howard seppe fin dalle sue prime apparizioni pubbliche, come appunto quella alla Judson Hall di New York City, creare un'estasi psico-sonora basata soprattutto sullo scambio lineare tra digressione d'insieme e tematiche che si autogenerano continuamente senza lasciare all'ascoltatore il tempo materiale per rendersi effettivamente conto dello sfasamento continuo dei vari strumenti in gioco. Le autonome linee di piano, basso e percussioni non vengono percepite come distaccate, anzi, pur essendo tutte deliberatamente soliste, si fondono talmente le une alle altre in un policentrismo prettamente melodico e ritmico da lasciare perplesso l'ascoltatore, quasi in uno stato di trance.    

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