La vita di Noah Howard, alto sassofonista di estrazione free jazz nato nel 1943 e passato a miglior vita nel 2010, potrebbe tranquillamente rappresentare la metafora dell'epopea del jazz: in primo luogo, il nostro era nato in quella New Orleans storicamente considerata la culla nella quale erano confluite le varie esperienze che avrebbero portato a quello che è passato alla storia come jazz. In secondo luogo, proprio come il jazz, ha assecondato il suo spirito nomade andandosene in giro un po' per il mondo prediligendo la vecchia Europa (anche con una testimonianza discografica di un live nello storico Swing Club di Torino); per giunta come figlio della città della tradizione e alfiere di culto proprio del movimento free, probabilmente l'asticella concettuale posta più in alto nel panorama jazz, per quello che è stato un bel paradosso evolutivo ed essenziale.
Nella sua carriera ha avuto modo di incrociare la sua strada anche con altre eminenti figure del movimento, primo fra tutti Archie Shepp proprio in quel 1969, anno cruciale per lo stesso Howard, per il mondo che lo circondava e che ha visto dare alle stampe questo suo "The Black Ark" per la, è il caso di dire nomen omen, Freedom Records. Il titolo di per sé è un presagio forte, un tumulto di panafricanismo, ed il blocco dei quattro brani che costituiscono il disco non sarà da meno partendo dalla superba "Domiabra", manco a dirlo nome di un villaggio in Ghana e che porterà il nostro, in virtù dei seducenti accenti modali con un free da inside/outside e con altri due fiati schierati come Arthur Doyle al tenore ed Earl Cross alla tromba, al richiamo della foresta delle sua radici ancestrali.
Questo giro del mondo in quattro pezzi non mancherà di certo di riservare altre sorprese, con il secondo pezzo, una sofisticata "Ole Negro" dai ricami timbrici aspri ed espressivi, dai richiami modal-ispanici del piano di Leslie Waldron, che sarà il contrappeso della doppietta al fulmicotone inaugurata con "Domiabra". Anche il Sol Levante sarà lambito da questo viaggio, e "Mount Fuji", con il suo tema da "quiete" come da tradizione nipponica, sfocerà in una cavalcata free molto oscura e volendo sconfinare in Cina quasi da concetto Yin e Yang; certamente roba più audace del pur diversamente bello "Jazz Impression of Japan" del buon Dave Brubeck. Come ultima tappa, "Queen Anne", dai toni decisamente più rilassati, introspettivi, quasi come a voler tirare il fiato, chiuderà questo splendido Viaggio di cui si è fatto carico questo oscuro viaggiatore col sax partito da New Orleans e approdato, con questa sua arca nera, nei porti più angusti e affascinanti del mondo. Imperdibile.
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