"Do you want total war?" Yes you want. Total War! Total War!

Termina cosi "God & Beast", probabilmente il miglior parto di Boyd Rice sotto l'aka NON; termina in un modo che riassume in pochi e semplici versi tutta la serie di concetti ottusi, misantropi e guerrafondai su cui l'americano ha basato l'intera carriera e il suo personaggio. Un personaggio discusso e ghettizzato per quelli che a conti fatti sono dettagli trascurabilissimi se poi i dischi donati ai posteri sono capolavori del calibro di "Blood & Flame" o "Easy Listening For The Hard Of Hearing". 

E "God & Beast" non è assolutamente da meno; un lavoro che pecca di poche novità rilevanti in fase di composizione e sperimentazione, un fattore tuttavia prevedibile da colui che alla fin fine è ancora lì dietro a nastri obsoleti e macchine della preistoria, ma allo stesso tempo perdonabile se si ricorda di come lo stesso sia stato tra i primissimi pionieri dell'industrial, del noise e di un certo approccio alla sperimentazione via nastri/giradischi già nei metà '70, col suo debutto senza titolo altresì conosciuto come "The Black Album". Ma la traccia, questa traccia, per quanto mi riguarda è il capolavoro della carriera, nonchè uno dei momenti più epici e gloriosi di tutto il panorama industriale-sperimentale dei '90 (assolutamente lontanissimo dai fasti del decennio precedente, quello dei diluvi di tapes e l'ultra-prolificità che ha caratterizzato il movimento, dal nome più di grido all'artista più underground). "Total War", tralaltro già apparsa in passato su "In The Shadow Of The Sword" in una versione primordiale, anonima e senza la benchè minima carica espressiva della qui seguente, è dunque il summa dell'arte di Boyd Rice, entità responsabile di una tra le musiche più violente, visuali, primitive ed istintive che siano mai state concepite. 

Le grida del terrorista Rice però non sono nè violente, nè brutali, nè tantomeno forzate come potevano essere patetici proclami del tipo "Mussolini come back! We miss you!"; non si pone nè come cantore della morte, nè come inguaribile nostalgico o teorico dell'apocalissi. La sua sembra essere una sentenza, se ne compiace visibilmente mentre la espone; è un delirio di onnipotenza che non accetta terze posizioni, una riflessione cinica e cosciente sulla merda che ci circonda e sul declino dell'Uomo, che al nichilismo e all'impeto del punk preferisce i 'fatti', e una carcassa rumoristica pronta a richiamare scenari di guerra e morte ben più violenti e viscerali di illustri esempi della scena quali il grigio 'romantico' e disincantato dell'amico Albin Julius o di quello apocalittico targato Blood Axis, in un flusso di droni grezzi e approssimativi, sovraincisioni ultra-lo-fi ed un impeccabile opera di massacro sui nastri, quella che lo ha reso celebre; un battaglione che non fa prigionieri, un ritmo deciso e marziale che non lascia dubbi su quali siano le intenzioni e le risposte di Rice, in quella che potremmo parallelamente interpretare come una sorta di inno alle teorie social-darwiniste del movimento Abraxas da lui stesso fondato (che sostiene gli umani stiano distruggendo questa terra e che l'unico modo per ripulirla è la morte, accettando di fatto ogni azione di depopolazione perchè - cito testualmente - "is good"). Non una teoria particolarmente acuta, articolata o brillante quindi, e che risuona anche abbastanza risibile se chi la concepisce è un tipo che colleziona barbie, un feticista della Disney, un cinquantenne che gioca a vestirsi da nazi. E un rumorista di tutto rispetto.

E dire che proprio come il nome fa intuire, il disco, che nel complesso vuole approfondire abbastanza pretenziosamente dualità e contraddizioni della natura umana, partiva introspettivo e 'misurato' come raramente Rice ha saputo essere, complice l'apporto della solita cricca di figure della scena neofolk (Douglas P., che suonerà anche le campane(!), la dolce e angelica Rose McDowall..). Quindi ecco rantoli vocali tutto sommato posati su "God and Beast" (affiancati da droni non da assalto come solito accadere, piuttosto statici e minimalisti), il muro tremolante "Between Venus and Mars" (notevole se non fosse che lo stesso rantolo di prima si ripete senza variazioni per sette minuti sette), le spettrali rarefazioni di "Lucifer, The Morning Star" (con assordanti rintocchi di campane e i gorgheggi di una McDowall diversa da come siamo abituati a sentirla, una McDowall in una veste inquietante e infernale) e "Millstones" (che vede l'asettico recitato di Douglas P. emergere in modo incerto dietro ad uno strato di emanazioni droniche composto da disarticolate voci catacombali e canti gregoriani squartati e oltremodo rallentati, in un artigianato non dissimile da molti esperimenti di Steven Stapleton come regista delle prime opere targate Current 93. Il battito wave di "The Law" si arricchisce del trallallellare della McGowall adesso tornata agli standard di cullanti cantilene e la la la che tanto ci piacciono; su "The Coming Forth" è invece il vocione di un Rice in botta a farla da padrone, sebbene quasi sotterrato dai consueti ammassi di rumore e dal martellare incessante dei tamburi).

Le ultime tracce sono però il Boyd Rice bestia al massimo della forma: "Out Out Out", remake della versione apparsa sull'ep "Rise" è geniale e demenziale, con un ritmo ciclico e meccanico, che prima ancora che trascrizione in musica del concetto di 'industrial' sembrerebbe la techno androide e minimale di Thomas Brickmann, ad accompagnarne i versi malati e deliranti ("Out! Out! Out! Cut it out! Out! Out!"), "Phoenix" è memorabile, tra i muri noise più sconvolgenti e traumatici che il nostro abbia mai assemblato, un irrequieto tappeto di rumore bianco in continua salita, una scalata e preambolo verso la distruzione assoluta che è "Total War", di cui abbiamo già parlato, uno dei brani più devastanti mai apparsi sulla scena, e il fatto che il tutto si limiti al battere militaristico, una sirena nervosa, il proclamare di Rice e nullapiù non è poco.

Presenti anche due brani fantasma, il primo trattasi di una lettura fredda, distaccata - e francamente inutile - di un non ben precisato poema, il secondo, molto ben accolto, è invece un muro di brutale harsh-noise sulla falsariga di "Phoenix". Nove impetuosi minuti di puro caos rumoristico che ci ricordano quali sono la virtù (NON)musicali di quest'uomo. Aspettarsi altro è inutile, dal momento che da trent'anni Boyd Rice fa sonstanzialmente nè più nè meno che lo stesso pezzo. Ma lo fa maledettamente bene.   

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