"Christs may come, and christs may go...

but Caesar lives forever”

Che starebbe per: i cristi vanno e vengono, ma Cesare è sempre Cesare.

Con questo breve epiteto Boyd Rice riassume il senso intero di “Might!”, e probabilmente il senso intero del suo pensiero, così delineando la sua visione del mondo, dell'uomo e della storia: una strenue lotta che vede il predominio del più forte sul più debole. Da qui lo sprezzo, l'irrisione per la pietà, per le dottrine progressiste, per tutti coloro che lottano porgendo l'altra guancia, ipocriti, nel migliore dei casi illusi, destinati a perire sotto i colpi di chi non si fa scrupoli ad utilizzare la forza e l'ingegno ai fini della propria auto-sussistenza.

Intriso di una cinica forma di darwinismo sociale di tardo ottocento, “Might!” si basa sui dettami esposti in “Might is Right”, libercolo scritto da un tale che usava appellarsi Ragnar Redbeard, opera passata ai posteri come l'esposizione definitiva del pensiero darwianiano applicato alle dinamiche che concernono l'uomo e la società. Più che una celebrazione della forza bruta, il testo ne descrive l'ineluttabilità nelle dinamiche sociali: la legge cieca del più forte in contrapposizione all'annientamento del più debole, condannato a soccombere e scomparire. Non vi è alcuna connotazione morale od etica, secondo Rice, nelle spietate leggi che vigono in Natura, e di conseguenza nella società degli uomini.

Come un tal pensiero poteva essere tradotto in musica? Ovviamente nel modo più brutale possibile. Siamo nel 1995, ma l'arte ed il linguaggio di Rice non sembrano volersi schiodare da quelli che sono i territori sonori in cui il Nostro ama passeggiare fin dai tempi di quel “Blood & Flame” che definirà il Non-sound negli anni a venire: harsch-noise della peggiore specie, elettronica tagliata con l'accetta, nastri stuprati con violenza inusitata. L'incredibile flusso sonoro allestito dal terrorista americano è percorso da un oscuro monologo che passa in rassegna i momenti salienti del trattato di Redbeard. In un certo senso, Rice adatta la sua passione declamatoria, già sperimentata con sagacia nelle atmosfere oniriche e fumose del progetto Boyd Rice and Friends, al micidiale muro di suono eretto con i suoi NoN.

L'opener “No Nirvana (prelude)” ne è il manifesto: lontano dalla pace e dall'armonia il verbo di Rice ci trascina in cascate sonore che precipitano nell'abisso di un'arena sanguinaria dove solamente il più abile, scaltro e privo di scrupoli sopravviverà: i nastri sparati a mille, le ritmiche zoppicanti, le urla dei demoni che precipitano nell'Inferno si accoppiano e stendono un tappeto di ossa e sangue sul recitato sornione di Rice, la voce dell'apocalisse nel bel mezzo dell'apocalisse.

Se le soluzioni vincenti non mancheranno (la travolgente carica belligerante di “Credo”, armata di un basso tellurico ed incalzante; la violenza piatta e stratosferica di “Force”, probabilmente il pezzo più estremo della storia della “musica”, tanto estremo da apparire monotono nella sua insuperabile tensione; gli sbilenchi balletti acustici delle chitarre in “The Immolation of Man”, danza ubriaca chiamata a cullare le orecchie dilaniate), alla fine non se ne potrà che uscire con le ossa rotte. Sconfitti. Sconfitti perché alla fine della fiera, c'è da dire, rimane quel senso di incompiuto e quella sensazione di insoddisfazione generale che si ha spesso ascoltando un album dei NoN, insieme di aborti e membra mutilate affettati con crudele e cieca violenza in quello che è il mattatoio sonoro di Rice: dimensione speculare a quell'arena terribile che è il mondo.

E quanto a brutalità e mancanza di scrupoli, Rice si aggiudica una vittoria sicura sulle nostre (povere, deboli) orecchie...

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