Se è doveroso riconoscere a Boyd Rice lo status di pioniere in ambito noise/power electronics (ricordiamo che il mattacchione americano è attivo sulle scene fin dalla metà degli anni settanta, ed è stato uno degli iniziatori dell'elettronica rumoristica di deriva proletaria, almeno per quanto riguarda l'esplorazione di un nuovo linguaggio, a prescindere dalla validità dei contenuti); se quindi Boyd Rice è stato fra i primi a lavorare sulla manipolazione di nastri e a concepire un certo uso perverso del giradischi, è altrettanto doveroso non chiudere gli occhi di fronte ai vistosi limiti tecnici e creativi di un “artista” che, dal mero punto di vista della produzione discografica, negli anni pare essersi trascinato stancamente fra irriverenti provocazioni e fortunate collaborazioni.
Insomma, è lecito considerare il Nostro come un maldestro alchimista che, nella notte dei tempi, ha avuto il guizzo di inventare il primo cocktail della storia: una rozza miscela di alcool e merda. A lui va quindi ricondotta l'idea originaria, ma mentre nel frattempo venivano messi a puntino i vari mojito, cuba libre, bloody mary e vodka orange, Boyd Rice rimaneva e rimane fondamentalmente legato al suo peculiare rum a base di merda (tutt'al più in versione flambé, con tanto di fiammata che ti ustiona la ghigna).
Dalle origini ad oggi, le idee sembrano essere sempre le stesse, le solite poche e sviluppate male (droni come nubi di mosconi impazziti e spezzatino di suoni ripetuti in frenetici loop, mentre una mano pelosa da australopiteco gira la manopola del volume). Album dopo album, Rice non riesce a trovare (ma probabilmente non è nemmeno il suo obiettivo) la quadratura del cerchio: la sua arte brutale ed imperfetta da scazzone dell'elettronica più oltranzista conserva il fascino dell'estremo, ma spesso è anche portatrice di un insopportabile senso di cialtroneria; e se con il precedente “God & Beast” il Nostro era riuscito a mettere una toppa grazie al contributo di un manipolo di ospiti eccellenti (Douglas P., Rose Mc Dowall ecc.), questo “Receive in Flame”, risalente all'anno 2000, potrebbe essere invece definito tranquillamente come uno dei punti più bassi della già di per sé non entusiasmante discografia targata NoN.
Da “Blood & Flame” in poi la minestra è più o meno la stessa, ma non è soltanto il perseverare nell'utilizzo della medesima ricetta a stancare l'ascoltatore, in questo caso è proprio la minestra stessa, tiepida ed insipida più del solito, a far sì che dopo due cucchiaiate il malgustaio si ritrovi costretto a lasciare il cucchiaio nel piatto e voltare il proprio palato altrove.
Da parte mia, pur non smaniando per un musicista come Rice, ho saputo accettare i suoi lavori più solidi e compatti, sia da un punto di vista stilistico che concettuale: saggi a tema sull'impossibilità di un'armonia universale, continuamente negata da un disequilibrio organico dato dalla lotta furibonda di forze inconciliabili. E se spesso questa visione è facilmente scaturita in un cinismo sonoro che vede la guerra come motore intrinseco della storia, la società umana come fedele specchio di una giungla terribile dove il più forte è destinato a schiacciare il più debole e dove la lotta è l'inevitabile asse su cui si muove la vicenda umana (e da questo punto di vista “Might!” ne era stato il manifesto più vivido), a mancare in “Receive the Flame” è proprio un collante stilistico e concettuale che tenga insieme le parti, come se il carattere estremo del platter risiedesse, più che nell'assemblaggio dei suoni, nella destrutturazione degli stessi. E il parto precoce ed innaturale di Rice (vedi parto cesario al quinto mese di gravidanza con coltello da macellaio) questa volta rende alla luce un essere minuscolo (trentacinque minuti) e deforme (otto pezzi che spesso hanno poco a che spartire fra loro, oscillanti fra il noise più brutale a passaggi di sconclusionata melodia). Il risultato è tale che finiamo per rimpiangere il vocione sentenziante di Rice e il trottare delle percussioni da parata militare, totalmente assenti a questo giro, che tanto ci avevano indignato in passato per l'inverecondo messaggio da essi veicolato.
Non mancano certo dei momenti positivi. L'opener “Alpha”, per esempio, non è affatto malaccio, costituendo un incubo vorticoso in cui le partiture dissonanti di un'orchestra ronzante e sgangherata si ripetono nel più tipico schema “noniano”, generando nell'ascoltatore la più tipica visione “noniana”, ossia: fine imminente, apocalisse alle porte, è l'ora di ricevere e restituire mazzate.
Poi tutto, come da copione, si interrompe brutalmente sul più bello, ed ecco che già siamo condotti innanzi ad un'altra oscenità. Ma il Rice più osceno è proprio quello che scende dal trono del rumore (l'unica cosa che gli riesce decentemente) per strisciare al suolo ed abbracciare quella strana cosa che è la melodia: il modus operandi è il medesimo, ossia prendere una frattaglia sonica di 3-4 secondi e ripeterla per 3-4 minuti. Bruttini, in tal senso, brani come “Spectre” e “Solitude”, animati da un piano strimpellato in modo puerile e da drum-machine caricate a cazzo di cane. Se in questo caso il senso della ricerca sonora sta nell'approdo all'orrido, possiamo dire che Rice centra pienamente il bersaglio (contento lui...).
Meglio allora gli inutili sette minuti di “Monism”, se non altro perché il suo vacuo ondeggiare di droni, feedback di chitarra elettrica e sintetizzatori salmodianti non guasta l'udito ed al contempo non offende l'intelletto.
Da segnalare la partecipazione all'operazione di Joel Haering (ottoni), Alex Buder (violino elettrico) e Bob Ferbrache, dei Blood Axis, che con il suo organo illuminerà certi passaggi dell'opera, come per esempio accade in “Medici Mass”, che tinge di sacrale un lavoro votato alla inconcludenza più assoluta.
Con “Omega” si chiude il cerchio (solita orchestra cigolante a base di violino elettrico), riportando l'opera alle atmosfere che avevano aperto le danze, ma anche il famigerato schema del serpente che s'ingolla la coda non riesce a conferire organicità ad un lavoro che sa davvero di poco, e il cui intento sembra essere proprio quello di urtare i nervi dell'ascoltatore.
Che sia proprio questo l'intento di fondo del nostro cerbiattone?
Buon rum & merda a tutti!
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