Agli albori degli anni '70, dopo aver passato gli ultimi anni a collaborare, in veste di virtuoso della chitarra, con gli artisti più importanti del momento (Bob Dylan, Joan Baez, Johnny Cash, Kris Kristofferson ed altri), all'età di 33 anni venne anche per Norman Blake il momento di intraprendere la carriera solistica.

Così, imbracciata una delle sue favolose Martin, l'antivigilia di Capodanno il nostro si chiuse in sala di registrazione, accompagnato dall'amico Tut Taylor al dobro, per uscirne solo a cose fatte.

Registrato interamente il 30 dicembre 1971 ai Glaser Sound Studios di Nashville, il primo album da solista di Norman Blake seguì la stessa sorte di molte opere prime di altri grandi artisti: eccellenti riscontri di critica in termini qualitativi, vendite di poco sopra lo zero.

Eppure il sasso nello stagno era stato gettato.

L'America poco per volta si accorse di questo fenomenale talento, che riusciva a riproporre fedelmente alla chitarra melodie della tradizione scritte per il violino (o meglio, per il fiddle), intervallandole da composizioni originali così curate nelle atmosfere e nei dettagli da rendere necessario il ricorso alle note di copertina per poterle distinguere dai pezzi tradizionali.

Fin dall'esordio, il giovane musicista rivelò, oltre ad una tecnica infallibile, una padronanza assoluta delle tecniche di sovraincisione, dando così vita a brani perfettamente amalgamati, sovraincidendo alla chitarra talvolta il mandolino, altre volte la chitarra stessa.

Negli anni, l'album si è dischiuso in tutto il suo splendore, ed è oggi considerato una pietra miliare ed un punto di riferimento da tre intere generazioni di chitarristi.

Si parte subito fortissimo, con una travolgente interpretazione del traditional "Little Joe", seguita da due originali sorprendenti: un'altrettanto movimentata "Richland Avenue Rag" (strumentale) ed una dolce e malinconica "When The Fields Are White With Daisies", che a mio avviso resta a tutt'oggi una delle più belle ballate folk mai scritte.

Seguono una dozzina di altri pezzi di indubbio valore (15 in totale), in cui trovare un passo falso o semplicemente un riempitivo risulta davvero arduo. Ogni singolo brano meriterebbe una menzione ed una recensione dedicata, a partire da "Ginseng Sullivan" e "Down Home Summertime Blues", ma avrebbe poi senso?

La recensione migliore consiste nell'inserire il cd nel lettore e, dimenticata la frenesia della vita moderna, lasciarsi trasportare in un'America perduta, dall'Artista che più di ogni altro può vantare le credenziali idonee per farvi da Cicerone in un tuffo nel passato così particolare.

Buon ascolto!

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