Se prendiamo il jazz, ci aggiungiamo il rock e tuffiamo tutto in ambiente progressivo, tra le molte chimeriche combinazioni possibili spiccherebbero senza dubbio i Nucleus. Una band relativamente poco conosciuta e premiata ampiamente al di sotto dei suoi reali meriti. Capitanati dal trombettista Ian Carr, scozzese e araldo di Miles Davis in Europa, i Nucleus si pongono come un laboratorio sonoro di straordinaria competenza tecnica e pregevole ispirazione artistica. Teoricamente esterni al prog, essi si collocano alla destra di certi esponenti della scuola di Canterbury, su tutti i Soft Machine, la cui ossatura infatti sarà in seguito composta da alcuni elementi (Karl Jenkins, John Marshall e Allan Holdsworth) fuoriusciti dall'orbita di Carr.
Qui ci occupiamo del loro esordio, ovvero lo straordinario Elastick Rock, del 1970, che contiene in nuce tutte le idee, le pulsioni e le tendenze che animeranno i Nucleus per più di quindici anni. E' un disco passato un poco in sordina, senza grandi fiammate né composizioni epocali, ma questo non deve trarre in inganno; ci troviamo di fronte ad un'esperienza musicale del tutto nuova, un'unione di jazz-rock con istanze d'avanguardia che possiamo senza indugio iscrivere al progressive più sperimentale e tecnicamente forbito. Ian Carr si circonda di un esemble di jazzisti tra i migliori della scena britannica, tra i quali spiccano senza dubbio il batterista John Marshall, il fiatista e tastierista Karl Jenkins (una delle menti del gruppo) e il fantasioso chitarrista Chris Sepdding, che incarna l'anima rock; completano la formazione il bassista Jeff Clayne e il sassofonista Brian Smith.
L'intenzione programmatica del disco è chiara fin dalla prima occhiata. In primo luogo l'elegante e sobria copertina ci rivela già a cosa stiamo andando incontro: il magma che brilla sul nero si sdoppia, come il nucleo di una cellula, e si riproduce per gemmazione costante e spontanea. E poi il titolo stesso, "Elastic Rock", che ci parla di una concezione particolare della musica, vista come un magmatico ribollire che si cristallizza di volta in volta in esperimenti sonori unici eppure indivisibili, bilanciati e mai banali, ammalianti e sorprendenti.
Difficile descrivere una simile opera brano per brano, poiché le composizioni confluiscono una dentro l'altra come fiumi lavici dando luogo a una corrente costante che trascina dolcemente l'ascoltatore e lo immerge in una condizione di movimento del tutto inaspettata. Emblematica è la title track, pacata digressione strumentale sorretta dai ritmi soft di basso e batteria, intarsi di fiati leggiadri e una chitarra che ricama con classe impagabile, mentre Striation vede l'ingresso di quelli che sembrano archi e disegna un clima sottilmente inquietante. Taranaki riprende le atmosfere e i temi di Elastic Rock e fa da introduzione alla stupenda e sorprendente Twisted Track, che si dispiega in un favoloso arpeggio di chitarra, dolce e ipnotico.
Sorretto da una sezione ritmica discreta ma solidissima, il pezzo presenta vari assoli di tromba e sax che si incrociano; cresce gradualmente e si fa più muscoloso verso il finale, e l'effetto è di un'esotica contaminazione che parla una lingua nuova tra il jazz e il rock, sicuramente un capolavoro. Crude Blues è divisa in due parti, la prima è praticamente uno struggente assolo di oboe che introduce a un bel brano jazz-rock con chitarra e fiati che lavorano di congiunti e botta e risposta, mentre l'oboe questa volta disegna figurazione briose. Arriva un manifesto del gruppo, 1916 - Battle Of Boogaloo, potente e deciso con gli imperiosi stacchi dei fiati sul tema chitarristico; un'edizione molto più poderosa ed energica, con l'aggiunta di originali inserti vocali, verrà registrata qualche mese dopo per il secondo lavoro del gruppo, Well' Talk About It Later e diventerà sicuramente uno dei loro brani più famosi.
Segue Torrid Zone, composizione da nove minuti in crescendo costante che pare una summa di ciò che si è ascoltato prima: il ritmo è preciso e scandito, quasi ipnotico, i fiati prima si producono in sprazzi isolati per poi scatenarsi in assoli da sogno, sempre con la geniale chitarra di Spedding che lavora con precisione assoluta e il rimarchevole lavoro del fantasioso Marshall. Earth Mother, fusa con la precedente, sperimentale e inquietante Stonescape, si apre con una ritmica ormai caratteristica e vede l'oboe in bella evidenza: Jerkins mostra la sua classe con un assolo favoloso ed evocativo. Dopo un velocissimo e sbalorditivo assolo di batteria in cui Marshall dà il meglio di sé, l'album si chiude con Persephone's Jive, un pezzo dall'atmosfera un po' meno sperimentale, rapido e irruente, quasi un divertissement.
L'opera prima dei Nucleus è un album assolutamente da riscoprire; il loro modo "progressivo" di vedere il jazz-rock dà vita a uno stile inconfondibile, che prenderà meglio corpo nei lavori successivi. Il pregio di Elastick Rock, pregio che via via negli altri album sarà meno evidente, è che si tratta di un disco che scorre via liscio ma inarrestabile come roccia fusa, ci impregna e ci tuffa in una dimensione vorticosa e cangiante, ci conquista così repentinamente che è quasi impossibile non ascoltarlo dall'inizio alla fine. Una volta che gli strumenti saranno ammutoliti e la musica si spegnerà, tutto intorno a noi ci apparirà per qualche attimo assolutamente e disperatamente immobile.
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