Non mi dilungherò molto su questo lavoro, infinitesimale tassello di una carriera oramai più che trentennale e prolifica come poche altre: si sa, l'arte di Steven Stapleton, genio dell'incomunicabilità e dell'ermetismo musicale, mira o alla testa o alle palle.

Con questo "Salt Marie Celeste", licenziato nel 2002 in memoria di un amico scomparso quello stesso anno, Stapleton mira decisamente alle seconde: cogliendo in pieno il bersaglio.

Non mi si fraintenda: l'intera discografia di Nurse with Wound non è giudicabile. Raramente un musicista ha saputo spiegarci la soggettività nella fruizione dell'opera d'arte come ha fatto Stapleton. Innanzi ai suoi lavori, ostici ed impenetrabili come pochi, abbiamo le medesimo impressioni che possiamo avere innanzi agli squarci di un Fontana: esaltazione e perplessità rimangono appannaggio esclusivo delle singole sensibilità. Tuttavia innanzi ad una sterminata produzione discografica, che conta decine e decine di pubblicazioni (fra lavori targati NWW e collaborazioni varie), è lecito azzardare, se non un giudizio assoluto, almeno un commento in relazione alle stesse opere dell'artista. E "Salt Marie Celeste" è sicuramente un album meno significativo di altri all'interno del vasto catalogo vergato Stapleton.

In "Salt Marie Celeste" viene abbracciato in toto il paradigma ambientale (non di certo una novità in casa NWW), mentre si accantona la frenesia che caratterizza i folli collage industriali per cui si è contraddistinto l'artista inglese fin dai suoi esordi: fra le altre cose, possiamo sostenere di trovarci innanzi ad uno degli album più ascoltabili di NWW, ma l'assenza del caos viene pagata con un minimalismo che ha del criminale.

Che Stapleton sia musicista preparato ed intelligente, questo è fuori discussione: basti pensare alla perfezione dei suoni, al placido respiro ambientale che dà il giusto ritmo agli accadimenti che hanno luogo in questa temibile messa in scena, al caratteristico trademark, che rimane indelebile nonostante il cambio di rotta stilistica.

Come dire, "Salt Marie Celeste" è un capolavoro di forma, che ci affascina fin dall'allucinante copertina, ma che sostanzialmente rimane povero di contenuti.

E si dica quel che vi pare, ma sfido chiunque (sano di mente, sobrio, o che non abbia fatto uso di droghe) ad entusiasmarsi per un'unica composizione lunga un'ora, in cui lo stesso tema viene ripetuto senza apprezzabili variazioni.

In "Salt Marie Celeste" vi è solo un'idea: una sorta di tetra onda orchestrale costruita con maniacalità certosina, che sale e scende in loop, e sulla cui cresta vengono ad aggiungersi macabri dettagli (lo scricchiolare di una porta che si apre, il rombare di un motore, il borbottare di un temporale): dettagli che, in un contesto di dark-ambient da incubo, possono anche generare inquietudine, ma nei fatti non conducono a quel climax di intensità emotiva che potremmo aspettarci da un'opera del genere.

Evidentemente non era quello l'obiettivo di Stapleton (e chi lo sa quali sono gli obiettivi di Stapleton!), e per certi aspetti è apprezzabile il suo sforzo di non scadere in un banale horror-ambient da novella gotica tardo-ottocentesca. Forse, potremmo azzardare, si tratta semplicemente di un dimesso requiem per l'amico scomparso, qualcosa di talmente intimo da suonare pressoché privo di senso per chi non è direttamente partecipe dei moti interiori dell'artista.

E se l'indole ambientale di Stapleton è maggiormente apprezzabile negli album dei Current 93 dedicati ai racconti di Thomas Ligotti (non molto dissimili da quanto qui descritto, dove tuttavia le suggestive narrazioni di David Tibet riescono a dare una ragion d'essere alle temibili evoluzioni della musica di Stapleton), non per questo ci sentiamo di consigliare l'acquisto di un album come "Salt Marie Celeste", a meno che si ami alla follia l'artista in questione, o si cerchi il giusto sottofondo musicale per impiccarsi.    

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