Nell'anno della rinascita collettiva made in England, del ritorno tanto atteso di Coldplay, Travis, Verve, Charlatans e compagnia bella non poteva di certo mancare "Dig out your soul", settimo album in studio degli Oasis. I fratelli Gallagher, sulla soglia della quarantina, si ripresentano sulla scena musicale dopo quasi tre anni di assenza, e tre lustri dopo i fasti sfavillanti degli esordi.

E' necessario fare un po di chiarezza sull'esperienza Oasis, di cui su questo sito si è ampiamente disquisito (sessanta recensioni, sessanta!!!) oscillando esageratamente tra posizioni di aperta ostilità infarcite di insulti e pregiudizi e posizioni fanaticamente favorevoli, piene di parole come "migliore" "mondo" "genio" e "fottuto". Esiste una scala di valori che, al di là delle preferenze e dei gusti personali, si fonda essenzialmente sull'idea base di originalità, distinguendo una sotto-culura commerciale che  propone la banale e vuota riproposizione di elementi stereotipati, la sterile ripetizione di formule convenzionali trite e ritrite di sicuro e voluto successo da una musica più innovativa, più ricercata, più imprevedibile, che esprime la tendenza alla sperimentazione e alla novità. Il tutto ovviamente con sfumature e livelli intermedi. 

Ebbene, gli Oasis da ben 15 anni si muovono sempre sulle stesse coordinate principali: un anacronistico rock'n roll anni 70, un ossessionante riferimento ai Beatles, un richiamo continuo quanto fintissimo alla musica psichedelica, una traccia inconfondibile di facile Britpop. Fanno parte insomma di quella marmaglia di musicisti che non aggiunge nulla all'idea di musica tradizionale: gli album che si si sono succeduti negli anni non fanno che rimescolare le carte, scambiare i pezzi, invertire l'ordine degli addendi. E come si sa, il risultato non cambia. 

Neanche questo album fa eccezione. Pervaso in ogni dove da un ostentato rock, venato qua e là da sfumature pseudo-psichedeliche, completato con qualche ballata di beatltesiana memoria strappa lacrime. Il solito insomma. Il solito singolo di lancio, "The shock of the lightining", veloce ed orecchiabile, scritto da Noel in cinque minuti mentre era al cesso. Le solite canzoni rock giocate sul riff accattivante e sulla voce graffiante di Liam che in pratica regge il pezzo da sola ("Bag it up", "The turning", "To be where there's life", e le tre song finali veramente penose "Ain't got nothin'", "The  nature of reality",  "Soldier On"). Le solite canzoni particolari, sperimentali, che sembrano uscite da un "Magical Mistery Tour", cantate da Noel con la sua voce più bassa e mielosa ("Waiting for the rapture", "(Get off your) high horse lady" e l'apprezzabile "Falling down" in stile Gorge Harrison). Infine, la solita ballatona "I'm outta time", l'unico pezzo davvero bello, in cui la melodia dolce e cullante si sposa alla perfezione con la voce sensuale di Liam.

Come dire: nulla di nuovo. E album assolutamente discreto, a tratti quasi scadente.

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