La Florida degli anni 90 è una terra che ha dato i natali a miriadi di band attratte da un solo verbo: quello della violenza sonora. E non è un caso che in questa terra statunitense sia nato un intero genere musicale e un'intera onda di gruppi che facevano dell'assalto sonoro il loro sostentamento.

Gli Obituary, guidati dalla carismatica e inquietante figura di John Tardy, sono sicuramente uno dei gruppi che più ha seguito le regole del death: potenza, violenza, attitudine, temi trattanti naturalmente cose non certo allegre e simpatiche.

E sono diventati un mito, nell'arco di soli 5 dischi, tutti dati alle stampe nel giro di 8 anni. Un mito proprio perché le regole del death, così come le conosciamo oggi, sono state scritte proprio dai riff contenuti in due dischi mirabolanti come “Cause of Death” e l'esordio “Slowly we rot”. Questi sono i due dischi più acclamati, e ad onor del vero, i più belli dei quintetto floridiano.

C'è solo un tassello che traballa nella loro onorata carriera, che per fortuna ha ricominciato a scorrere proprio negli ultimi anni, grazie ad una splendida reunion, ed è il loro quarto disco, del 1994, dal titolo “World demise”. Non parlo della critica musicale. Parlo detgli stessi seguaci del combo statunitense, che, al primo ascolto di questo emblematico disco, spesso fanno smorfie di disappunto. Se dovessi ascoltarlo oggi per la prima volta, anche io lo boccerei come un disco di certo non all'altezza dei primi capolavori, e neanche del suo diretto precedente “The End complete”. Dunque, un flop? Assolutamente no, perché, 'World Demise', nella sua complessità e nel suo essere volutamente contorto è un disco che ha bisogno di tanto rodaggio prima di spiccare il volo.

Il punto debole di questo disco è proprio l'assimilazione ardua, che lo rende deludente ai primi ascolti. Non esagero affermando che questo disco rafforza la pesantezza sonora ascoltata fin adesso dagli Obituary, in canzoni che hanno l'incedere lento e cadenzato. Il primo punto a sfavore che entra nelle menti di noi fans intransigenti è la pubblicazione di un videoclip e di un singolo apripista per il disco: “Dont' Care” è la prima canzone pubblicata per promuovere l'album, nonché è la canzone che apre le macabre danze: ci vuole tempo per assimilare questa nuova faccia dei cinque del Necrologio, in un brano che è molto cadenzato e che presenta nuove soluzioni ritmiche persino nelle parti di batteria. Un buon brano che apre le porte successivamente all'ottima e nuovamente lenta title track: “World Demise” non si discosta molto dalla traccia di apertura, è percussiva e martellante e di difficile memorizzazione. A volte in questo disco sento delle aperture che mi sanno di Pantera, e il fatto a me non dispiace molto, perché ripeto, questo disco dopo diversi ascolti, comincia a premere sull'acceleratore del mio gradimento e canzoni quali “Burned in” e “Redifine” presentano un gruppo in fase di leggera evoluzione. Piccola nota di lode meritano gli assoli, mai invadenti e sempre presenti per arricchire ulteriormente i brani.

Su tutta questa musica da macello campeggia la voce intrisa di disperazione di Tardy, che, mai mi stancherò di dirlo, rappresenta una sorta di oasi in mezzo al deserto, diversa e distante dai soliti screams e growls che affogano il death odierno. “Paralyzing” e “Lost” continuano il discorso stilistico. Il disco si muove ormai su questa linea compositiva e qualitativa: riff e soluzioni molto ricercate e intricate, che ne rendono difficoltoso l'ascolto spensierato. Ancora un esempio di questa complessità sono le massicce schitarrate di “Solid State”, “Splattered” e di quella mostruosa “Final Thoughts”. Se vi sembra che non ci siano ulteriori elementi per rendere ottimo questo album, ci pensa la finale e dodicesima traccia “Kill For Me”, che si presenta quasi tribale, lenta e massacrante nella sua ossessività perversa. Il disco finisce qui, tra le assordanti e piacevoli grida di Tardy.

Un disco che potrei chiamarlo “sperimentale”, sebbene mostri sempre l'impronta del gruppo, che, questa volta, ha voluto ulteriormente rallentare i tempi e appesantire il suono a scapito dell'immediatezza. Sicuramente un ottimo disco, ma che proprio per la sua anima intricata si presenta come uno degli episodi più belli, ma, paradossalmente, meno riusciti della discografia del gruppo Floridiano.

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