Gli Oblivians sono nati nel periodo storico sbagliato; il grosso boom del garage rock sarebbe esploso solo cinque-sei anni dopo. Però poi a pensarci bene, erano quattro ragazzotti della provincia americana (la migliore: Memphis!) bruttini, volgarotti e decisamente poco appetibili per Mtv. L'esatto opposto dello studiatissimo quanto efficace bicromismo che ha contraddistinto l'immagine dei White Stripes o di quella band di fotomodelli noti come gli Strokes. Sfortunati, ma assurti per presto a "leggenda" del garage-punk anni 90, e imitati da chiunque, grazie alla illusoria "semplicità" della loro musica: batteria suonata con violenta incapacità, assoli bislacchi, ritmi ripetitivi e urla da licantropo. Ma loro avevano una cosa in piu'. Forse era magia, e trattandosi di ragazzi del Teenessee, magia nera.

Nel 98 danno alle stampe il loro ultimo EP , "Play 9 Songs With Mr. Quintron", l'album più complesso, e più ambizioso che gli Oblivians abbiano mai prodotto. Un album che vede una band riscoprire le radici della musica americana, soprattutto nera, il blues, lo spiritual e il gospel in maniera non ortodossa, non banale, e sicuramente interessante, specie per un gruppo che viene da un genere in cui la fossilizzazione su tre accordi-assolo-urletto non è solo richiesta, ma pretesa, visto la reazionarietà estrema del pubblico. Il gospel non esisterebbe senza organo ed ecco che come "quarto membro" ospite vediamo Mr. Quintron, ben conosciuto nell'underground di Memphis come genialoide e bislacco one-man-band all'Hammond. I suoni sono ripuliti, la batteria è una vera batteria e non suona più come uno scatolone, anche se è picchiata come ora non farebbe più nessuno; le chitarre hanno un riverbero quasi traslucente e magico, Greg Oblivian finalmente dimostra di avere una voce piena, duttile, che può cantare una canzone senza urlare come un ossesso. E che, se canta così, può fare tremare le gambe a una ragazza.

Poche delle canzoni sono originali Oblivians, e se ne riconosce il timbro, come in "I don't wanna live alone" mantiene la frenesia dei pezzi più veloci e scatenati di "Popular Favourites", molte le rivisitazioni di pezzi della tradizione, come "Ride that train", ma perfettamente nelle loro corde e nel loro stile. Assolutamente favoloso il gospel anfetaminico "what's the matter now", con il suo vertiginoso crescendo centrale "The Holy ghost got me/I got the holy ghost in me" che sì, noi bianchi a certe cose neanche possiamo aspirarci, ma è così strabordante di passione. Sono tutti davvero riusciti i pezzi dal vago sapore gospel, concitati e affannati, come "I feel alright" o quelli più bluesy e ammiccanti come "Live the life".
Tra i momenti più alti del disco "The final stretch", un blues (fin troppo) disperato che parte sottile per poi diventare sempre più corposo e straripante, in cui Greg Oblivian rivela delle doti interpretative insospettabili, per come cambia registro dal sussurro all'urlo animalesco. Altri pezzi degni di nota, una luciferina "If mother know", con una sezione ritmica mozzafiato, e spledida "Mary lou" con piano, orchestrata magnificamente, volgare e insieme terribilmente erotica. Stanley Kowalski, insomma. E' strano pensare che questo sia stato un momento irripetibile nella carriera dei tre Oblivians, che dopo lo scioglimento, con le nuove rispettive band, non sapranno dare un seguito degno di questo album: spesso troppo sottotono i Reigning Sound di Greg Oblivian (fatta eccezione per l'elettrizzante "Too much guitar") troppo Oblivians le numerose band di Jack Oblivians (Knighty Knights gli ultimi, che comunque sono otto spanne sopra la media dei gruppi garage punk). Quindi, forse, si è trattata di una strana magia nera che questi ragazzi possedevano, magari senza saperlo, quando in quei giorni suonavano insieme.

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