Apollinaire Rave. Così si chiama lo studio dove questo album è stato registrato. Due parole con cui vado molto d'accordo e che mi collocano in ubicazioni spazio-temporali distanti in cui, pur essendo sempre me stesso, sembravo un altro. Facciamo che per iniziare aggiungo un'altra osservazione. Ho un amico che ha poca dimestichezza con le lingue straniere e che a precisa domanda risponderebbe "I'm of Montreal". Se gli dicessi "from" lui mi risponderebbe Erich. Quella che di m ne ha due, luminare di quella psichiatria che al mio amico ha dato un buon posto di lavoro, anche se non conosce l'inglese.

Ormai scrivo direttamente sull'editor di DeB, noncurante del fatto che il mio scritto possa andare perso. Soprattutto in questo caso, qualora la connessione andasse a farsi fottere, non avrei problemi a riprendere tutto daccapo e riprendere le trame del discorso da un altro punto: geografico, corporeo, spaziale. Potrei partire da un pelo per tessere le lodi di Timbuctù, potrei partire dalla Groenlandia per sconvolgermi in un inesorabile pianto.  Io penso che quando si scrive bisogna essere convinti che si può. E sono convinto che Kevin Barnes, mente coordinatrice degli Of Montreal, pensi sempre che tutto si possa fare quando scrive i dischi di questa sorta di collettivo.

Io gli Of Montreal li adoro. Sto come un nerd, incollato allo schermo dai loro video, inebriato di fantasie sessuali con la loro musica. Spesso mi capita di staccarmi da loro quando il sole fa capolino tra i due monti fuori dalla mia finestra, turgidi come un bel paio di tette. Gli effetti collaterali dei nostri su di me sono misurabili in almeno una buona mezz'ora di visioni elementari ma da pienissima customer satisfaction: da buon cafone erotomane, trasporto le foghe sprigionate dalla musica sul circondario e così due montagne diventano poppe e quel sole io, smanioso di rimbalzare su quell'enorme distesa di femmina.

A proposito di poppe loro sono pop. Molto pop. Penso proprio che se la musica da classifica, quella di Top Of The Pops, fosse questa, allora l'ascolterei.  Magari non sarei un fan accanito però andrei alla ricerca di Barnes per dirgli che lui fa bene alla musica. Perché? Da tempo mancavano sciamani così illuminati e vivaci, erboristi musicali esperti in spezie di ogni dove e vegetali allucinogeni. Perché Barnes quando vede lo spartito lo saluta, si siede e ci parla. Gli spiega che non ha idea precisa del punto di partenza e di quello di arrivo. Ma gli dice che quando sarà pronto a dare il via al motore sarà tutto di colpo molto chiaro e confuso. Quando Barnes vede lo spartito diventa artista poliedrico e segue fondamentalmente due linee: quella dritta di Le Corbousier e quella polimorfa di Picasso, riuscendo a farle incontrare, di album in album, nelle sale di uno stesso museo molto diverse fra loro: quella delle pitture rupestri, quella dell'antico Egitto o quella del rinascimento. Soffiando nell'aria quella polverina magica che regala ad ogni composizione un aspetto psichedelico cubitale che riesce a tenere coesi minimalismi sostanziali con barocchismi formali, mettendo bene a fuoco effetti fisici, come quello della rifrazione della luce, che nella sua musica diventano concettuali. Che poi, Barnes, è un maestro d'orchestra che di strumenti ne sa animare davvero tanti.

In questo album ci hanno proprio dato dentro ma si sono tenuti vicini, come epoca di rimando artistico, visto che all'improvviso ho aperto quest metaforica strada. Questo è il loro disco Wahrol. Gli Of Montreal arrivano all'appuntamento n°10 con la sala d'incisione e portano al suo interno un'aria molto seventies. L'altra sera stavo accompagnando alla stazione un mio cliente. Una volta salito nella mia macchina scopro che al suo interno mandano on air questo disco - ormai ho uno stereo che mi conosce bene e decide da solo -. Il tizio, dopo due minuti, mi fa "Ma chi è chist', Prince?".

No, Naples, non è Prince ma ci siamo quasi. R&B, funk e disco entrano con una vivacità inusitata all'interno dell'album. E gli Of Montreal entrano in studio con un paio di chiappe notevoli in più rispetto al solito, quelle di Solange Knowles (sorella della Beyoncé). L'album si snoda tra pezzi da classifica in successione che suonano tutti bene, alcuni pure benissimo. In questo susseguirsi di novità per le mie orecchie ci sono sempre, però, contrappunti che non ti fanno dimenticare chi stai ascoltando davvero. Distorsioni di varia natura, follie repentine, costruzioni su scale che pendono da un lato o vanno a zig zag. Insomma, sarà anche ballereccia, ma questa musica ha il cartellino di una marca davvero sopraffina: Of Montreal. C'è anche la Janelle Monae, tanto per non farsi mancare le antidive. 

Tra falsetti psicotici e passaggi da checche isteriche urbiache, il groove e il funk espressi dal disco risultano essere entrambi molto -edelici. Una volta tanto i nostri si dimenticano della loro psicotica sobrietà. La cosa davvero spettacolare è la produzione. Che i nostri facciano sul serio si capisce dalla corposità dei suoni messi in campo, anche quelli minimi e dall'altissima fedeltà con cui ogni nota viene amplificata. Segno che non c'era niente da coprire e che, anzi, c'era molta voglia di mettersi in un gioco che poteva risultare pericoloso ma dal quale i nostri e Barnes sono usciti assolutamente vincenti. Bravi davvero.

Prima di concentrarmi sul neonato undicesimo album, chiudo questa recensione che magari è tutta sconnessa ma un motivo c'è. Volevo proprio che il testo avesse la forma di una loro canzone di quelle un po' più vecchie. Se non ci sono riuscito, è perché il pensiero di chi mi ha regalato questo album mi ha distolto dall'intento. C'è molto valore affettivo in tutto ciò misto alla mia malsana voglia di fare sempre tanto casino.

Carico i commenti...  con calma