: We all lie in the gutter
 but some of us are looking at the stars:

 

Piccoli Douglas P. crescono.

 Siamo nel 2001 e Kim Larsen, colui che si cela dietro al progetto :Of the Wand & the Moon:, dà alle stampe il seguito di quello che rimane ad oggi il suo capolavoro insuperato (il promettente debutto "Nighttime Nightrhymes").
":Emptiness:Emptiness:Emptiness:", orgogliosamente "prodotto, composto e suonato sotto l'influenza dell'alcool e della misantropia", è comunque non meno intrigante del suo predecessore, e, nel bene e nel male, va a rappresentare quello che ci possiamo aspettare dal giovane artista danese.

 Nel bene, perché ":Emptiness:Emptiness:Emptiness", nei suoi 61 minuti di durata (!), riesce a delineare i contorni di quel vuoto esistenziale che era probabilmente negli intenti dell'autore. Un album, questo, che non potrà non rapire il cuore e la mente di chiunque sia disposto ad abbandonarsi all'inconsistenza delle sue note avvolgenti, ipnotiche, rarefatte, vuote di materia, colori ed emozioni: note che come infausti vapori notturni vanno a plasmare un oscuro e fascinoso folk apocalittico, ben levigato nei suoni e confezionato con professionalità.

Beninteso,:Vuoto:Vuoto:Vuoto: può facilmente fare rima con :Noia:Noia:Noia:, e per questo, affinché il tutto si trasformi in :Emozioni:Emozioni:Emozioni:, è necessario esser fan sfegatati del genere.

Oppure non aver ascoltato mai i Death in June.

 Perché la proposta di Kim Larsen (ed è questo il male!) ci appare eccessivamente legata alla musica della Morte in Giugno, ed in particolare alle atmosfere di un album come "Rose Clouds of Holocaust": la cadenza vocale, gli arpeggi, le melodie di quell'album vengono ripresi sfacciatamente da Larsen, la cui unica preoccupazione appare quella di rincupire il tutto e privarlo di quelle sfumature di cui l'arte di Pearce, pur nella sua essenzialità, sa(peva) colorarsi.

Il fatto che Larsen non sappia elaborare una propria visione artistica e tanto meno emanciparsi dai cliché stilistici e dai luoghi comuni del genere (estremamente banali i testi, a tratti urticanti per la pretenziosità che mal si addice alla loro vacuità) va ad aggravare così il giudizio, già di per sé severo, verso un musicista che deve fare i conti anche con evidenti limiti tecnici ed espressivi (aspetto, quest'ultimo, che caratterizza un po' tutta la scena, ma che in Larsen vengono ad esasperarsi fino ad esasperare l'ascoltatore).  

Che non si stia parlando di un genio della musica, del resto, lo si evince già dalla copertina (pacchianissima!) che ritrae il coglioncello, di pelle vestito, in un bosco di notte, intento a maneggiare sgargianti fiamme gialle ed arancioni, visibilmente ridisegnate al pc: fiamme di plastica, in definitiva, un po' come la fiamma che ispira l'arte di Larsen.
Ma proprio l'incapacità di Larsen nel trasmettere emozioni, che è il peccato veniale di ogni artista, diviene probabilmente il punto di forza di questo album monocolore, :Nero:Nero:Nero:, pronto ad evocare quel vuoto e quella desolazione richiamati fin dal titolo.

Plumbee ballate folk si alternano ad oscure narrazioni ed ipnotici rituali, ma è più lecito parlare di un'unica esperienza: il tutto finisce così per suonare terribilmente compatto e privo di variazioni, poiché Larsen lavora per riduzione, toglie il superfluo, lima il rimanente e finisce per impantanarsi maledettamente nelle paludi della reiterazione .

 Un minuto di niente, poi l'irrompere di un solenne arpeggio e di un vocione monocorde... no, non stiamo ascoltando i Death in June: è "Lost in Emptiness", imponente brano d'apertura! E se da un lato ci è impossibile non biasimare un titolo così scontato, dall'altro è doveroso riconoscere che "Lost in Emptiness" è in realtà il titolo più indicato per descrivere quel desolante arpeggiare nell'oscurità, quella voce persa nel vuoto, quelle tastiere avvolgenti che ricamano oniriche trame senza meta. (Buono, a tal riguardo, l'uso che si fa delle tastiere, maneggiate con maggiore abilità che in passato e definitivamente assestate su coordinate ambientali, per non dire allucinogene.)

 Lo scivolare degli organi liquefatti, la solennità delle percussioni a mano, le malinconiche geometrie del violoncello, il crepitio di un fuoco che brucia nella notte: sì, tutto è decisamente suggestivo, ma, ahimè, il fantasma di Douglas P. è fin troppo presente, fino a divenire una vera e propria ossessione.

Eloquente, a tal riguardo, il succedersi di "Silver Rain" e "Gal Anda", la prima onirica, la seconda più incalzante: un giochetto che sembra voler ricalcare le orme di quell'irripetibile accoppiata che fu "The Accidental Protégé" e "Rose Clouds of Holocaust".

 Larsen, di suo, ci mette "Algir Naudir Wunjo" e "Reficul", rispettivamente 12 (!!) e 17 (!!!) minuti, entrambe chiamate a rappresentare l'anima più misticheggiante della sua creatura.
La prima è un'oscura invocazione a base di sfocate orchestrazioni, voci campionate e il battito marziale delle percussioni: in altre parole, una pallida parodia della magistrale "Death of a Man" (indovinate di chi?) riletta attraverso quelle ambientazioni crepuscolari e decadenti tanto care al Boyd Rice parlante.
La seconda, posta saggiamente in chiusura, è invece un estenuante excursus ambientale che intende evidentemente ribadire il senso di vuoto che ispira l'opera intera. Un pezzo che nemmeno i Current 93 più spacca-palle avrebbero avuto il coraggio di proporre.

 Non vorrei tuttavia che le tre stelle e certi giudizi scoraggiassero il curioso e lo distogliessero dal dare comunque una possibilità agli :Of the Wand & the Moon:, poiché questo ":Emptiness:Emptiness:Emptiness:", se preso come cosa a sé stante e tenuto lontano da impietosi paragoni, non è affatto male.
Se infatti si avrà il buon cuore di avvicinarsi all'opera senza troppe pretese, non sarà certo difficile lasciarsi cullare dalla poesia notturna di Larsen, abile nell'evocare il fantasma di quel Pearce che, ahimè, oggi non esiste più e probabilmente non farà più ritorno.

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