Kim Larsen è un fottuto mediocre, su questo non ci sono dubbi, ma rimane pur sempre un artista meritevole di una certa attenzione da parte di chi si ritiene un vero appassionato del genere, se non altro per questa sua buona opera prima, datata 1999.

Il nostro barbuto/pelato danesino (ex Saturnus), infatti, nell'arco di quattro album ed un Ep, dimostrerà nella sua carriera solista non pochi limiti quanto a capacità compositive e soprattutto esecutive, ma “:Nighttime Nightrhymes:” è in fin dei conti un buon album di folk apocalittico, onesto, sentito, appassionato: un album che se non certo brilla per originalità, si distingue sicuramente per ispirazione e convinzione.

Il folk targato :Of the Wand & the Moon: paga certamente un enorme dazio alla musica dell'illustre Douglas P., ma rappresenta pur sempre sfaccettaure (sfumature) interessanti all'interno del genere: cantato in inglese e norreno, fortemente radicato nella mitologia nordica, “:Nighttime Nightrhymes:” racconta dell'anno mille, dell'avvento della cristianità in terra scandinava, guardando con nostalgia (alla stregua dell'auto-flagellazione) ad un passato irrecuperabile; indagando, fra rune ed un'iconografia spudoratamente vichinghesca, la fine di una tradizione millenaria.

Pervaso da un'avvolgente epicità notturna (che niente ha di guerrafondaio, ma che fa dell'intimità e dell'introspezione i suoi punti cardine), “:Nighttime Nightrhymes:” è una sentita variazione di quello che può essere stato, sia a livello stilistico che concettuale, un caposaldo del genere come “But, What Ends When the Symbols Shatter?”. Un'intima passeggiata nei boschi, una manciata di ballate rischiarate dalla sola luce della luna e riscaldate dal crepitante falò appiccato in un rassicurante spiazzo di una selva oscura. Un folk sussurato, trasportato da ispirati accordi di chitarra acustica e pochi altri strumenti (un organo liquefatto, un flauto strampalato, soffici quanto sporadiche percussioni, il ruggito di un ensemble di archi che via via va a spezzare un flusso sostanzialmente cantautoriale forgiato nel binomio chitarra/voce).

Se negli anni il Nostro scivolerà lentamente in uno spudorato appiattimento su quelle che sono le coordinate gettate dalla Morte in Giugno in un album come “Rose Clouds of Holocaust”, in questo esordio emerge ancora una volontà (seppur timida) di scavare un proprio tracciato, non solo caratterizzato dalle liriche (come si diceva, fortemente improntate su credenze di stampo nordico), ma anche da un folk ancora tutto sommato vergine, che rinuncia quasi in toto ai provverbiali campionamenti industriali, e che si abbandona accondiscendente a sonorità arcaiche e dal profondo potere descrittivo. Qui, del resto, emergono i tratti distintivi del sound :Of the Wand and the Moon:, a partire dallo scarno recitato (al limite del sussurro), per passare dai ricami di chitarra elettrica, chiamati a sottolineare i passaggi fondamentali di certi brani, fino alle immancabili parentesi cameristiche evocanti un folclore perso nella notte dei tempi.

Dieci episodi (al netto dei brevi intro ed outro) capaci di susseguersi senza annoiare, pur non presentando significative variazioni di tema ed umori. E così l'opener “I Crave for You” è quanto di meglio il Nostro ci possa servire nella sua pur breve carriera: una chitarra tremendamente in palla fin dai suoi primi fraseggi, un folk obliquo e reso magico dalle semplici calate di un misticheggiante organo, un refrain che si stamperà nella testa solo dopo pochi ascolti. Segue “Lion Serpent Sun”, rafforzata da arpeggi elettrici chiamati ad arrotondare con mesta epicità il suo desolante procedere; segue “Sòl ek Sà”, per soli archi e (non) voce.

Fra i momenti più suggestivi, cito l'evocativa “VargOld”, che finisce per richiamare paradossalmente i Velvet Underground di “Venus in Furs”: una “Venus in Furs” rivisitata al passo dolente di solenni percussioni, archi stridenti e una chitarra distorta che ammanta nella sua nera pece un album che di elettricità ne vede davvero poca. “She with whom Compar'd the Alpes are Vallies” riscopre invece il cantautorato più classico, un cantautorato finalmente scevro da tedianti atmosfere apocalittiche, e maggiormente orientato sulle direttive dei folk-singer degli anni sessanta.

Pause riflessive e ri-partenze fulminee caratterizzano questo album che non sembra avere (aiutato anche dalla sua brevità) reali momenti di cedimento, come se ogni cosa fosse esattamente al posto in cui dovrebbe essere. Un fragile equilibrio tipico delle piccole-grandi opere che non regalano grandi sussulti, ma sanno affascinare in ogni loro frangente.

Niente di sensazionale, beninteso, l'ascolto rimane appannaggio dei veri appassionati del genere, coloro soprattutto che non temono di sprofondare in un piacevole e sempiterno deja-vù. Quanto a me, la (discendente) parabola artistica di Larsen non disturba più di tanto: il suo percorso proseguirà con l'altrettanto buono “:Emptiness:Emptiness:“Emptiness” e il meno buono “Lucifer”, chiamato a chiudere una fantomatica trilogia iniziata con il debutto appena descritto. Con l'EP “Midnight Will” ed in particolare con l'ultimo “Sonnenheim” (del 2005), Larsen tenterà (nel suo piccolo) di dare una svolta alla sua (piccola) carriera, cercando di arricchire e di contaminare un sound che via via diverrà più composito e corale che in passato.

Le riserve sono molteplici, vedremo cosa ci riserverà il futuro.

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