Una terra strana, il Salento. Luogo di mare eppure culturalmente ancorato alla terra, più contadino che marinaio. Terra di passaggio, crocevia di culture in tempi antichi, eppure nell’epoca contemporanea una propaggine isolata dell’Italia: non ha porti importanti, non porta da nessuna parte, la sua economia è poco importante per il resto d’Italia. Rivalità, tra questi greci italiani e gli “slavi” del nord (i baresi). Questa bellissima terra ha visto un’espansione tremenda dal punto di vista turistico, cosa ottima per i ristoratori ma meno buona per i bagnanti nativi.
La musica, però, è un'altra cosa. Nell’ultima decade ha raggiunto una popolarità incredibile grazie alla famosa – o famigerata, vista la partecipazione del mazzarume – Notte della Taranta. La musica salentina ha una rigogliosa varietà che, in Italia, può essere solo trovata in quella napoletana. E questo disco ha una delle migliori interpretazioni di questa musica che io abbia mai sentito, senza staccarsi dai canoni fondamentali: nessuno strumento elettrico; nessun testo in italiano, ma solo salentino e grico; nessuna rielaborazione di canzoni famose in chiave “pizzica”, come molti altri hanno fatto, anche con risultati ottimi.
L’album non può che aprirsi con la pizzica più famosa, Santu Paulu, canto di guarigione, canto corale, frenetico e rapidissimo, che secondo la storia veniva ballato dalle donne impazzite per il calore nei campi d’agosto oppure era usata per far “sudare via” il veleno causato dal pizzico della Taranta. Dopo di ciò si passa ad una canzone dedicata ad una donna un po’ indisponente (“Vulia sapire ci la faci ca si puntusa/o puramente ca la poti fare”). Dopo un pezzo strumentale si passa a Nia, nia, nia è la canzone più bella del disco, un’intensa ninna nanna in griko, probabilmente vecchia di millenni. Su un lento violino si interseca il canto di una madre povera che augura e quasi prega per i figli felicità e ricchezza.
Il ritmo riprende nella successiva Canuscu na carusa, la prima con una voce maschile, che esalta le doti della “carusa” di cui il cantante è innamorato. Lu rusciu dellu mare è un altro canto disperato, che coinvolge le invasioni turche e spagnole, la differenza di classe ed un amore impossibile (“Iddha se ndae alla Spagna e ieu in Turchia/la fija de lu re è la zita mia”). Una delle canzoni più famose oltre i confini salentini, certamente vale più di un ascolto, con una lenta metà che ricorda le classiche canzoni greche per poi ingrossarsi come il mare, con un ritmo spagnoleggiante a metà, con la voce della donna – che parla dal punto di vista di un uomo – che si gonfia piena di rabbia e frustrazione.
Dopo il canto tambureggiato contro l’oppressione feudale del padrone in Fimmene, fimmene ed un’altra versione di Santu Paulu, si passa a La turtura, cantato dal punto di vista di una donna che vorrebbe spezzare le catene di una società feudale.
Il disco si chiude con un altro classico, La pizzicarella, meno aggressiva di Santu Paulu, su una ragazza che chiede ad una rondine di portare il suo messaggio d’amore (“Quantu t’amau t’amau lu core miu/mo nu te ama cchiui se nde scerrau”).
Un disco molto legato alla terra ed al mare, che riesce a far sentire chiaramente e con purezza le voci dei contadini salentini centinaia ed, in alcuni casi, migliaia di anni dopo l’origine di queste canzoni.
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