Lo so, sembra impossibile, ma siamo ancora qui a scrivere dell'ennesimo disco degli Oh Sees di John Dwyer. A poco più di un anno di distanza dall'ultimo “Orc” che già distava meno di un anno dalla doppietta di predecessori che avevano segnato, ora si può tranquillamente dire, una svolta artistica della band, certificata già dal cambiamento del monicker da Thee Oh Sees a semplicemente Oh Sees. Con la ristrutturazione della formazione dal 2015 in poi, l'assalto all'arma bianca, un po' noise, un po' psicotico che contraddistingueva la band fino a “Drop” ha lasciato campo ad un suono meno duro e più psichedelico, e contestualmente la struttura stessa dei brani ha cominciato a sfaldarsi, prendendo direzioni un tempo impensabili.
Come si pone “Smote Reverser” rispetto alla produzione passata? Dalla copertina, e dall'ascolto di “Overthrown” uscito come primo estratto a inizio estate, avremmo detto che Dwyer fosse finito in un opprimente trip thrash metal anni '80, ma come al solito al nostro piace giocare. Eh sì perchè, a parte questa traccia, nel resto di "Smote Reverser" si viaggia su strutture complesse approcciate in maniera psichedelica, e in parte (tenetevi forte!) quasi “progressive”.
Non fraintendetemi, né date troppo peso alle molte recensioni in rete che etichettano il disco sbrigativamente come “progressive”. C'è oggettivamente una traccia da 14 minuti, ma sarebbe arduo definirla prog, a parte la durata. “Anthemic Aggressor” è un trip di synth cosmici e ritmica anfetaminica che farebbe ribollire il sangue di qualsivoglia cultore della perizia strumentale. Se nella forma ricorda il prog, musicalmente siamo all'antitesi come approccio.
Anche questa ultima fatica, seppur non riuscita completamente, contiene almeno una buona metà di brani clamorosi, tipo la tribalità psych di “Sentient Oona”, l'organo e la chitarra acida che si rincorrono su “Enrique El Cobrador”, e un esempio di proto progressive come “C”. E poi ci sono grandi riffoni di chitarra che ti si stampano in testa bene come non mai (“Abysmal Urn”, il quasi funk di “Nail House Needle Boys”).
Se volete un frullato di quanto descritto finora buttatevi su “Last Peace”: partenza soft, fra post rock e psichedelia, che a metà accellera per un assalto controllato fra groove di basso, chitarra acida e inserti caldissimi di organo.
Un altro centro? Quasi, ma da un tre anni a questa parte finalmente qualità fa rima con quantità a casa Dwyer, e ne siamo contenti.
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