Giungono al fatidico terzo album gli inglesi Beak, progetto di Geoff Barrow, l'uomo dietro alle macchine nei Bristoliani Portishead, e non potevano che intitolarlo >>> coerentemente con il precedente contraddistinto da due becchi.
Se la fantasia e l'inventiva non sembrano essere di casa per quanto riguarda i titoli dei dischi, tutt'altro si può dire delle 10 tracce che compongono il disco. Le coordinate sono a grandi linee le stesse: pop sbilenco dalle ritmiche motorik, a base di synth e tastiere assortite, quasi totalmente strumentale, a volte dissonante, a volte quasi rock nell'approccio. Questo >>> aggiunge un taglio, lascitami usare un termine che odio, “cinematografico”. O meglio alla Carpenter a dirla tutta. Basta l'iniziale “The Brazilian” per catapultarvi in un qualche futuro distopico immaginato fra la fine dei '70 e i primi '80. Un tripudio di synth spesso marci e stonati (“Birthday Suite”, o la senzazione horror di “Abbots Leigh”) o glaciali e sorretti da ritmiche sincopate (“Allè Sauvage”) o infine appena accennati, contorno di musiche a lambire l'ambient pura (“Teisco”).
Qualche sprazzo di robot rock, fra kraut e post punk sintetico (“King Of The Castle”), richiami alla danza cosmica degli ultimi Cavern Of Antimatter (“RSI”), fino all'inaspettato finale psycho folk di “When We Fall”, che stride con quasi tutto quello che lo precede, ma che da una lettura distorta e di gran classe di un genere a loro distante. Operazione che riesce solo a musicisti con grande sensibilità. Fra i dischi dell'anno appena finito.
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