Eh già. Ok Go. Forza, andiamo. Verso dove non si sa. Può essere un "Ok Go" rivolto verso la conquista dell'ambita palma di miglior band alternativa. Come anche no. Dopotutto, le idee ci sono, il look anche, l'avventura piace sempre, perchè non avviarci. Avviamoci. Si comincia con un paio di EP: il primo è nel 1998, gli altri sono a seguire. Ma giusto due o tre canzoni, per allenarsi. E' il 2003 l'anno in cui si sente veramente l'arringa: primo disco omonimo, oro, incenso e mirra dai Tre Magi della critica, risvolto positivo anche da parte del pubblico. Ma qualcosa cambia. Gli ingenui ragazzi perdono un po' della loro voglia di fare, capiscono che tutto sommato il mondo è un po' troppo grosso per essere spaccato tutto. E certamente, il mondo musicale non aiuta, proprio per niente. Fatto sta che un giorno si ritrovano nella cantina di un amico. Loro suonano col cuore, con la voglia. Ma tutto attorno a loro, in pieno stile Vodafone, la musica viene fatta per bisnes (o business a seconda della pronuncia). Per soldi. Per fama. Per stuoli e stuoli e stuoli di fan con la bava alla bocca del tipo sai-che-per-te-costruirei-un-palazzo-a-mani-nude. Eh beh, mica è tutto oro quello che luccica. E ci devono essere rimasti un po' male i ragazzi, vedendo compiersi il famoso detto. Ed ecco, giorno dopo giorno, la band comincia a chiedersi che gusto c'è nel suonare quando il mondo musicale non è poi tutto quel bene di cui tutti dicono. In queste occasioni, l'amicizia ha la meglio. Ma rimane lo sconforto. Fatto sta che si rimettono a lavorare, sommessi ma convinti. Il disco si compie, pronto per uscire. Ma ecco, fatto nefasto, Bush viene rieletto alle elezioni presidenziali. Per loro significa una cosa solo: cazzo. In fretta e furia, il titolo provvisorio dell'album viene cambiato. E così, la band capitanata da Damian Kulash Jr. ritorna nel 2006. Ovviamente il disco non si può chiamare "Fuck", è brutto da vedersi, è volgare (come no...), perciò bisogna accontentarsi di un laconico ma potente "Oh No".
Chiariamo subito una cosa: nonostante l'improvvisa prevalenza della brutta realtà sui fasulli sogni dorati, gli Ok Go non hanno cambiato di una virgola il sound del precedente album. I riff sono forse un po' più maturi, ma la differenza è praticamente irrilevante. Le canzoni sono tutte molto facili da assimilare, un bell'alternative rock contaminato talvolta da un po' di funk o da sprazzi country. Ma ora andiamo con calma ed esaminiamo le tracce dell'album. Il secondo lavoro della band di Chicago si apre subito col botto: "Invincible" (che si apre con un fantastico rumore di amplificatori trascinati) ha infatti una freschezza ed un'originalità sonora abbastanza rilevante, che aggiunte ad un ingegnoso ritmo dispari e ad un'elevata orecchiabilità lo rendono di fatto il miglior pezzo del disco. Come dire: per-creare-una-bella-canzone-servono-sempre-in-ogni-caso-complessità-riff-supersonici-o-altre-stratificazioni? Certo che no. Qui i riff sono elementari, basati prevalentemente sul basso di Timothy Nordwind, eppure sin dal primo ascolto, conquistano e si lasciano ascoltare con grande facilità. Bravi davvero. La seconda traccia si intitola "Do What You Want" ed esula leggermente dalle atmosfere dei Nostri, in quanto si apre con un inquieto rullo di Dan Konopka seguito poi da un Andrew Duncan che decide di prendere spunto dalle atmosfere Seventies (con ritmi facilmente riconducibili ai Led Zeppelin), tirando fuori degli accordi sanguigni che fanno davvero una grande figura, accompagnati dalla voce di Kulash, sempre molto bravo a capire il momento giusto per far salire il timbro vocale e, di conseguenza, il ritmo della canzone stessa. Buonissima composizione, anche se un po' spiazzante.
Si arriva al terzo pezzo, "Here It Goes Again": un mezzo passo falso da parte degli Ok Go. La canzone infatti è troppo leggera: servono a poco i retrogusti funk, o i riff accompagnati dai monosillabi di Kulash, o i coretti generali che caratterizzano il ritornello. Si sarebbe voluto pretendere qualcosa di più: come singolo commerciale è quasi perfetto, ma in un album creato per il popolo alternativo questo fatto stona un po'. Si passa, dopo tre minuti o poco meno, a "A Good Idea At The Time": un altro pezzo niente male davvero, dove la voce di Kulash si inruvidisce e il sottofondo strizza l'occhio ai migliori Flaming Lips, pur mantenendo un buon orientamento anni '70. L'originalità della band, in questo caso, sta nell'assemblare questi elementi in maniera personalissima, creando una possibile hit che non scontenta proprio nessuno (interessante anche la tromba soffusa che chiude la canzone). La quinta traccia si intitola "Oh Lately It's So Quiet": l'apertura è basta sulla dolce chitarra di Duncan, seguita da un sottofondo di percussioni quasi r'n'b, ed affiancata dal fantastico falsetto di Kulash che, in una pausa fra una strofa e l'altra, si permette pure il lusso di far fare i coretti ai compagni di merende. La canzone si mantiene più o meno rilassata in tutto il suo incedere: da segnalare solo un semplicissimo assolo di Nordwind verso i due minuti, dal tono rugginoso, che aggiunge un po' di movimento ad una lenta senza infamia nè lode.
Si riparte con "It's A Disaster", vivace pezzo dai ritmi vagamente swing che gioca tutto sull'alchimia fra voce solitaria e cori collettivi, Veramente bello il ritornello, dominato dalle voci di Nordwind, Kulash e Duncan, e scandito irregolarmente da Konopka. Nessuno spazio per virtuosismi: canzone che arriva diretta all'ascoltatore con uno schema ritmico estremamente semplice, assolo di breve durata che niente aggiunge al potenziale della band, ma che conferma tutte le buone impressioni provate nelle tracce precedenti. Si approda al primo singolo ufficiale estratto dal disco, l'ormai storica, il cult "A Million Ways". Canzone gradevolissima, aperta da una chitarra solitaria e seguita dalla voce soffusa, che cade spesso in uno sporadico falsetto, di Damian Kulash Jr. Si apprezza soprattutto il delizioso apporto funk dato dal basso, in stato di grazia, ed il ritmo ben scandito che invita il popolo a riversarsi sulla pista da ballo per muovere quelle flaccide chiappe. Si registra una leggera caduta di stile -e dire che la band, di stile, ne ha da vendere- verso la metà della canzone, quando un coretto in sottofondo lascia spazio ad una parte vocale senza accompagnamento strumentale, un po' grezza. Ma tutto sommato, cosa importa: "Oh darlin', you're a million ways to be cruel...". L'ottava traccia s'intitola "No Sign Of Life": interessante l'apertura, con una chitarra acustica che ben presto si dilegua per lasciare spazio ai riff, più che mai sanguigni, dell'ispirato Nordwind. Meno ispirato stavolta è invece Kulash: la voce fatica a lasciare il segno sull'accompagnamento ritmico di Konopka, e più volte viene soffocata da accordi troppo irruenti e un po' azzardati di Duncan. Un po' deludente il fatto di non registrare alcun assolo nel pezzo: solo la chiusura ci accontenta in parte, ma un vero assolo poi non è, visto che la band ci canta sopra. La nona composizione è "Let It Rain": un'altra canzone dall'incedere lento, con contaminazioni leggermente gospel, dove la chitarra si affianca armoniosamente ad un rinnovato Kulash (si sentiva la mancanza degli "Hallelujah, hallelujah" in questo disco : D). La batteria si limita a rafforzare alcuni punti troppo melensi o inutilmente ripetitivi, ma è un drum dolce e molto orecchiabile. Ed ecco, per una canzone lenta, ne arriva un'altra decisamente vivace: la più corta del disco, "Crash The Party", due minuti e venticinque secondi di puro divertissement, con le chitarre che ruggiscono finalmente risorte ed i membri del gruppo che, liberati dal compito un po' ingrato di rendere una band di alternative rock una band di minimalismo, esplodono in coretti dal sapore quasi circense. E il tutto si rivela essere una scommessa vinta con anticipo.
Pezzo decisamente sottotono è invece quello successivo ("Television, Television"), una canzone abbastanza veloce con in rilevanza la batteria e con le chitarre leggermente slavate, che si fanno veramente sentire solo nel ritornello (cantato, come al solito, dalla band al completo). La dodicesima canzone, dal titolo "Maybe, This Time", ha un andamento iniziale vagamente inquietante, con il basso di Nordwind che spadroneggia solitario, interrotto raramente da alcuni accordi di chitarra e sovrastato dalla voce sommessa di Kulash. Compaiono in questo pezzo anche le tastiere, che condividono con Nordwind il sottofondo (notate il "pla-pla-pla"?). Diversa dal solito, una via di mezzo fra una canzone allegra ed una canzone lenta, un ibrido che giunge alla perfezione nel disco. Chiude il tutto la cupa "The House Wins", contaminata in modo sostanzioso da campionamenti elettronici, atti a distorcere i riff di Duncan e Nordwind, con la batteria che segna il ritmo come in una banda e la voce di Kulash che si fa sentire sconfortata. Buona l'idea di inserire un pianoforte nella parte centrale della canzone.
Bene, ho finito la descrizione del disco. Se volete ascoltare qualcosa di diverso dalla merda commerciale targata Mtv, e qualcosa di non troppo complesso allo stesso tempo, questo disco fa per voi. Altrimenti, pazienza. Re...
No, no, aspettate un momento. Il requiem può aspettare. Mi sono dimenticato di una cosa che in teoria sarebbe dovuta essere il perno della recensione. O forse l'ho lasciata apposta per ultima... I video. Signori e signore, anonimi e utenti registrati nonchè editors, nessuno, e dico nessuno, e ribadisco nessuno, può dire di ascoltare gli Ok Go se del gruppo non ha mai visto un video. Una sola parola: imperdibili! Imperdibili! Imperdibili sia per il bambino di 4 anni sia per l'anziano di 90 (mi sento molto Wanna Marchi in questo momento). Perchè? Ma perchè nei video sta l'essenza della band stessa: il modo di porsi, il modo di essere, la personalità. E sia che questo venga trasmesso in modo tradizionale (come in "Invincible", dove il gruppo canta e suona mentra vari oggetti esplodono), sia che venga trasmesso in modo meno ortodosso (in "A Million Ways", video costato più o meno 20 dollari, dove i quattro si cimentano in un balletto in un giardino, o in "Here It Goes Again", il più spassoso, dove adottano la tecnica di "A Million Ways" correndo e facendo acrobazie sui tapis-roulant) il messaggio coglie sempre nel segno. E non fa nemmeno troppa fatica. Un dato per capirlo? Ve ne do due: il video di "A Million Ways", partito come visione strettamente riservata agli amici, che in una settimana ha ricevuto più o meno 700.000 downloads dal sito ufficiale della band, ma anche i downloads degli altri video, che sono fra i più scaricati di YouTube. E siccome non potete perderveli, e siccome voglio facilitarvi la vita, ecco a voi tutti i link dei singoli ufficiali:
VIDEO DI "A MILLION WAYS"
VIDEO DI "INVINCIBLE"
VIDEO DI "HERE IT GOES AGAIN"
Bene, requiem.
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