Innamorarsi di tutte le persone che si incontrano nella vita è, senza dubbio, una tendenza alquanto pericolosa: gli Okkervil River ci tengono premurosamente a ricordarcelo. Innamorarsi di loro, in compenso, è un rischio a cui ci si può abbandonare placidamente. Texani di Austin, capitanati da mister Will Sheff, propongono da qualche anno un folk-rock semplice, privo di fronzoli, ma intenso, mettendo assieme Bob Dylan, Nick Cave e Bright Eyes. Questo disco, uscito nel 2002, è forse la loro cosa migliore. Sedetevi su una poltrona, lasciate scorrere le canzoni: vi sembrerà di essere seduti su una chaise-longue, magari in una veranda legnosa con vista sulla campagna.
Nove canzoni di malinconie, sensi di libertà, gioie vissute sotto luci oblique, sparse in pianure vastissime. Le facce sono familiari, l'intimità di una cucina consola, anche se nel paese c'è l'ubriaco che ti fa intravedere la dimensione sghemba della vita, o l'assassino che ghigna mentre si vede circondato, e tutti quegli emarginati con cui senti di avere in comune, se non la vita, la sua visione sporca. Il disco parte con un capolavoro: si chiama "Red", è una dolce e commossa canzone alla madre, tra rimpianti e piccole frustrazioni. Chitarra acustica, una batteria spazzolante e un flauto che riempie di note antiche i vuoti tra le strofe. Il pezzo finisce per odorare da intimo ritorno domestico in una di quelle domeniche crepuscolari, quelle che ti insegnano fin da scuola: tristi, un po' nuvolose, in una primavera ancora fredda, timida e malinconica, in cui vai a trovare la madre (o il ricordo di lei) con un mazzo di violette. Quando entra quel flauto vengono i brividi di nostalgia.
"Kansas City" è un evocativo pezzo tra country e folk, con un'armonica dylaniana e Sheff che ostenta un tono strascicato alla Cave. Ancor più Cave è presente nelle note buie di "My Bad Days", sprofondamento abissale nelle distorsioni delle giornate storte, nei pensieri che strappano e dilatano le cose quando non gira bene: il dolore si denuda, sfregato da un violoncello beffardo, sovresposto da un ritmo lentissimo. La sofferenza si sforma, perde le misure, alla Dostoevskij. Quando il nemico peggiore diventa il pomello della porta. "Lady Liberty" e "Westfall" sono pezzi più mossi: la prima è arricchita dai fiati, mentre la seconda racconta la storia di un omicida, condendola con ricami di un mandolino picaresco: la canzone a metà parte come un treno con l'ingresso della batteria, e all'urlo di "Evil don't look like anything" ti viene voglia di spazzare via i soprammobili di casa. Ancora più convulsa è "Dead Dog Song", dove la voce di Sheff arriva effettata e il ritmo incalzante prende direzioni neanche tanto vagamente country. Per praterie.
Il rallentamento acustico di "Listening To Otis Redding At Home During Christmas", dal testo ancora delizioso ("Home is where beds are made and butter is added to toast. On a cold afternoon you can float room to room like a ghost"), sa di un'America sbriciolata nelle campagne, o incastonata nell'esilio di edifici metropolitani. Ricordate il racconto di Natale che chiude il film Smoke? Ce lo distenderei lì sopra, come un lenzuolo sul letto nuovo. E poi c'è il folk allo stato selvaggio di "Happy Hearts" e "Okkervil River Song", che sanno di taverna e di rive erbose.
Se quando il disco finisce distinguete ancora i serramenti di casa vostra, il lampadario e la tivù, poco male: gli Okkervil non fanno per voi. A quest'ora, se vi fossero piaciuti, vedreste solo campi di tabacco e villaggi sperduti negli spazi sconfinati dell'America okkervilliana. Con i Decemberists, senza dubbio, tra i migliori interpreti del genere: il compromesso tra musica d'autore e indie-rock sta forse, magicamente, tra le pieghe di questo folk malinconico fuori dal tempo.
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