Mi sono apprestato a recensire questo capolavoro con non poca commozione, tutte le sensazioni provate dal momento in cui ho ascoltato l'album per la prima volta, cominciando a scrivere si sono improvvisamente concentrate nella mia mente in tutta la loro pesantezza, impedendomi addirittura la scrittura stessa -non sto scherzando- e di avvicinarmi ad un'intima descrizione dell'opera di Åkerfeldt e soci.

Per un momento, infatti, ho desistito dall'intento di un'analisi così approfondita del disco, troppa confusione nella mia testa... sarei risultato abbastanza obiettivo nonostante l'enorme mole emotiva del disco gravante sulle mie spalle ancora doloranti e affaticate (e ne è passato di tempo...)? Per questo ed altri motivi -che non vi elenco per evitare di annoiarvi già dopo poche righe- ho avuto parecchie incertezze, ma dopo aver inserito il Cd nello stereo le canzoni dell'album hanno cominciato lentamente a scivolare via rievocando nel mio animo episodi bellissimi, anche molto lontani nel tempo, ed è allora che mi sono sovvenute le seguenti parole: "Il ricordo di un dolore è ancora doloroso! E' quello di una gioia a non essere più gioioso...". Ignoro di chi sia questo pensiero, ma intimorito non poco da tale sentenza che ha continuato a battere sui miei neuroni ho preso la decisione finale e mi scuso già dal principio per la prolissità della recensione, pertanto ne raccomando la lettura integrale solo a chi fosse realmente interessato.

A chi non volesse perdere tempo in una scorsa alle mie parole, che potrebbero apparire tedianti a molti, dico solo che "Damnation" non è un semplice album, è un'esperienza da dover fare assolutamente! Considerato dal sottoscritto uno dei punti più alti della discografia della band svedese (sebbene abbia ricevuto non poche critiche da chi non si da pace se non ascolta nemmeno un growl), è uscito nell'aprile 2003, postumo rispetto ad un altro grande album, "Deliverance", dal sound decisamente più orientato verso il death-metal -che in "Damnation" non compare per nulla- anche se sono consapevole che definire in questo semplice modo la musica degli Opeth è un insulto.

Il full-length qui descritto si presenta con otto magnifici brani registrati tra l'estate e l'autunno del 2002, con la produzione a cura di Steven Wilson dei Porcupine Tree (che ha collaborato, in qualche episodio, anche alla composizione) e la pubblicazione a cura della label "Music For Nations".
Bene! In strettissima sintesi ho presentato "Damnation". Ne volete sapere di più? Continuate nella lettura... I primi versi del canto III dell'immensa opera del divino Alighieri mi sembrano le più adatte, qui, per essere riportate, ovviamente con tutto il dovuto rispetto:

"Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
. . .
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate
"

E nella "città dolente" si entra con "Windowpane", attraverso una polverosa vetrata su cui è riflessa una pallida ed evanescente immagine, una "blank face" (le prime parole del disco) immersa in un perverso gioco di luci ed ombre; e probabilmente vi è il rimando da parte dell'enigmatico quanto magnifico artwork di Travis Smith (che non pochi di voi conosceranno)... Un'intro di chitarra introduce le sibilanti parole di Mikael Åkerfeldt accompagnate dal caldo arpeggio di Peter Lindgren, che lascia poi spazio all'intermezzo di un etereo synth fino ad un assolo dai riecheggiamenti seventies' prog; lo stesso schema, con pochi cambi di tempo (in questo caso tutti pari), si ripete fin quando i ritmi si fanno più pacati, Martin Lopez dietro le pelli traccia una sottile e fragile trama percorsa dal suono soft del basso Fender di Martin Mendez. Con questi primi minuti si passa, gradatamente, da uno stato di lucidità alla più profonda incoscienza, ed è proprio a partire da questo momento che la fatica del vivere si allontana definitivamente, sensazione che si protrarrà ininterrottamente per tutta la durata dell'album. Già da questo brano si manifesta il gusto di Åkerfeldt nel concepire struggenti arpeggi che si sposano ad atmosfere riconducibili alla scena progressive rock degli anni 70, su citata, ma... attenzione! Nessuna emulazione! Nessun riarrangiamento! Solo cuore e passione!

Si è già proiettati in questo fittizio mondo parallelo con "In My Time Of Need", figurato volo pindarico nel regno dell'immaginazione che contribuisce a destabilizzare completamente l'ascoltatore: la sommessa voce di Åkerfeldt si staglia sulle dissonanze create dalla chitarra di Lindgren, fino al chorus in cui il vocalist è accompagnato dalla sua chitarra acustica e da linee di basso vibranti; la desolazione e la malinconia in questo piccolo gioiello si accentuano: "I can't see the meaning of this life I'm leading", ma una sottile speranza ancora vive, nonostante il suo iniziale ed obbligato abbandono prima del viaggio... . "Would someone watch over me, in my time of need?".
E' la volta dell'ombra della morte che si affaccia inquietante su di noi, sussurrandoci la sua ninna nanna: "Death Whispered A Lullaby" canta Åkerfeldt, sostenuto da un tetro arpeggio di chitarra acustica a cui si accompagna il suono caldo e pastoso dell'elettrica che disegna i binari sui quali il pezzo si muoverà nei minuti successivi. La cantilena "sleep my child" accompagna l'ascoltatore fino ad un improvviso ed inaspettato delirio di chitarra elettrica che si ripeterà nel momento finale della canzone, ancora più imprevisto e shockante. La poesia della musica e del testo è spiazzante, grazie anche al contributo di Wilson: è lui l'autore del testo di questo terzo piccolo capolavoro.

Con la successiva "Closure" si cambia decisamente registro, qui a farla da padrone è l'acustica a 12 corde di Åkerfeldt che individua straordinari e coinvolgenti arpeggi d'ispirazione orientale, atmosfera d'altre terre che caratterizzerà tutta la canzone: il brano apparentemente potrebbe sembrare più che altro un divertissement ma, in realtà, nasconde una marcata attenzione verso i dettagli da parte del leader degli Opeth, soprattutto per i passaggi di chitarra acustica e le parti tastieristiche affidate, per tutto "Damnation", al geniale Wilson.
E si giunge all'"eterno dolore", è la volta di "Hope Leaves", anestetizzante contro i dolori della realtà ma non contro quelli del sogno, che si presentano frammisti ad una straziante ipocondria: "There is a wound that's always bleeding, there is a road I'm always walking and I know you'll never return to this place" e la speranza se ne va. L'arpeggio clean di chitarra elettrica è ancora una volta splendidamente espressivo, le backing vocals di Wilson conferiscono spessore ad una canzone che sarebbe un eufemismo definire stupenda, sia dal punto di vista emotivo sia dal punto di vista strutturale: la parte ritmica è palpitante, Lopez si adatta all'andamento soft della melodia tuttavia senza mai lasciare in secondo piano il suo "tocco" (sebbene l'"impalcatura" del pezzo sia abbastanza regolare, in 4/4); e Åkerfeldt sembra sul punto di una crisi di pianto. Qui si tocca il vertice musicale degli Opeth, inevitabili ed incontrollabili le variazioni nel battito cardiaco dell'ascoltatore.

Una gemma dietro l'altra, ed è così che alle orecchie dell'ascoltatore giunge "To Rid The Disease": è a questo punto che ciò che sto scrivendo sulla tastiera sembra vuoto e senza senso. E' possibile trasporre in parole delle sensazioni bellissime? Interrogativo abbastanza banale, certo, che purtroppo corrisponde ad una triste difficoltà. Ancora una volta in questo brano tutto è perfetto, e nell'interludio di pianoforte, pochi secondi dopo fuso in un'inquietante amalgama con basso e percussioni, c'è tempo per pensare: come liberarsi della sofferenza ("to rid the disease" appunto)? Sofferenza che in questi frangenti è diventata davvero difficile da sostenere.
Il volo è prossimo alla fine, ed una chitarra piange: è "Ending Credits", toccante strumentale che ha bisogno di ben pochi commenti; nessuna parola nel brano, nessuna parola per descriverne la rara bellezza!

Il claustrofobico sound del mellotron di Wilson ci introduce infine a "Weakness": la voce filtrata e commovente di Åkerfeldt sembra far parte di una melodia impossibile da scomporre, un'armonia inscindibile, stessa sensazione che si prova ascoltando, pochi momenti dopo, i timidi ma emozionanti assoli di chitarra che provocano nient'altro che distorsioni appena accennate in ceree visioni ultraterrene... la "perduta gente"! La chiusa di "Damnation" merita ancora una volta una descrizione accurata, nella sua semplicità (tre strumenti: mellotron, chitarra elettrica e la voce suadente di Mikael -anch'essa inevitabilmente uno strumento-) "Weakness" racchiude circa 4 minuti di alta liricità: l'atarassia, intesa nel suo significato etimologico (assenza di turbamento) è un obiettivo impossibile da raggiungere, è la stessa melodia a costituire quella sorta di agitazione atavica che sembra non lasciare scampo ne' dar pace all'ascoltatore. E' in "Weakness" che l'ascoltatore, ormai totalmente ebbro di tale sconvolgimento di sensi, prova a divincolarsi, a fuggire da questa specie di prigione che l'ha rinchiuso isolandolo dal mondo e si dimena sempre più, perdendo lentamente le speranze; fin quando le ultime parole di Åkerfeldt spezzano, improvvisamente, come una folata di vento, questa sorta di maledizione... e il pianto dell'ascoltatore alla fine del disco non sarebbe ne' eccessivo ne' così inspiegabile.

Inutile ora la discussione sul genere musicale qui proposto o sulle influenze mostrate in quest'album: semplicemente, ascoltatelo! Magari da soli o massimo con un'altra persona che vi attenui, dopo la fine dell'ascolto, il brusco ritorno alla realtà impedendovi il collasso emozionale; davvero non sto esagerando, chi l'abbia ascoltato attentamente può comprendermi.

E la recensione la dedico proprio alla persona con cui tante volte sono entrato nel sogno di "Damnation"...

 

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