Tornano i nostri amati Opeth, due anni dopo il bellissimo, illuminato “Damnation” che ha fatto emergere il lato più intimistico della proposta musicale della band scandinava. Proprio per questo, però, erano sorti dei timori –forse giustificati- su quale sarebbe stato il futuro degli Opeth: avrebbero dimostrato ancora una volta di essere geniali, eclettici e sinceri oppure avremmo perso per sempre i padri del prog-death? Sembra strano, ma sono corrette entrambe le affermazioni. Perché? Vediamo di analizzare questo Ghost Reveries.

La bellissima copertina ci introduce in un mondo diverso, diverso perché in questo caso la sensazione di desolazione cede in parte il passo a delle coordinate spettrali, illusorie, irreali. Per fare un paragone letterario, possiamo tirare in causa la malsana visione gotica di Edgar Allan Poe. Ascoltando l’opener, però, il tempo sembra essersi fermato all’uscita di Still Life. Quelle sfuriate micidiali, il growl preciso e potente, i delicati arpeggi pieni di malinconia. Ghost Of Perdition è una canzone degli Opeth, indubbiamente.
Eppure qualcosa sta cambiando, ed è The Baying Of The Hounds a confermarcelo. Forse sto solo ingigantendo dei piccoli particolari, forse non ho ancora capito cosa aspettarmi, ma in questa canzone – forse per la prima volta nella carriera degli Opeth- Mikael usa la voce pulita anche quando non ci sono inserti acustici, creando una sorta di contrasto, ben riuscito, tra i devianti riff gothic-death e la sublime prestazione vocale del singer.
Paradossale, ma dopo sole due canzoni la pelle comincia già a tremare: ti guardi intorno, cerchi sguardi che non ci sono, senti dei passi tra le grigie ombre. Sei già triste, ma anche impaurito: dove sono, dove sono i fantasmi?
Sono gli Opeth a risponderci, con la successiva Beneath The Mire, introdotta da un riff che con il death ha poco a che spartire: tastiere gotiche immergono chi ascolta in un contesto insperato, con le chitarre che incerte emergono piano piano prima del growl esplosivo di Akerfeldt che dopo pochi secondi sfuma a favore della voce pulita. Ancora un cambio di tempo: arriva una chitarra leggerissima, insieme a dei semplici accordi di tastiera. Un brevissimo intermezzo, un attimo di pace prima del terrore: torna il growl? No, è stato un secondo. Il fantasma è riapparso, per poi nascondersi. Sono inserti elettronici a scandire la fine della track. Non so quale scopo abbiano, ma temo che non si sia trattata di una scelta eccessivamente felice. Ma potrei sbagliarmi.

Anomala invece Atonement: l’incedere orientaleggiante la rende misteriosa, affascinante, mentre in questo caso l’elettronica risulta appropriata ed offre delle sensazioni veramente uniche: la voce effettata di Mikael da’ il via ad una sorta di lullaby spettrale. Apparentemente soft, Atonement è piuttosto un concentrato di follia, angoscia e calma. Ma è davvero calma? Od è solo una tregua in attesa del ritorno del fantasma? Niente ci aiuta a capirlo, perché l’ultimo minuto è composto esclusivamente da un riff ripetitivo ed incauto, che ricorda in certi particolari l’intro della bellissima Face Of Melinda.

Ma attenzione: è ora di uscire dalle quattro mura per cercare gli alberi di Reverie – Harlequim Forest. È la canzone forse meno appariscente dell’album, perché pur essendo interessante è la più “canonica” insieme a Ghost Of Perdition. Dopo questo malinconico viaggio di undici minuti siamo cullati dalle atmosfere eteree di Hours Of Wealth. Ma con gli Opeth la sorpresa è sempre dietro l’angolo: una pausa, breve quanto basta, sconvolge gli equilibri della canzone: è jazz quello che sto ascoltando? In realtà è solo un analgesico per The Grand Conjuration, la cui violenza si intervalla con una voce a metà tra il cantato ed il sussurrato. No! Non ora… ! E’ lui? Sì, è tornato il fantasma.. no, solo un’impressione. O era lui davvero? Difficile a dirsi: troppa varietà di emozioni, contrasti interni, sofferenze.
Ci vuole qualcosa. Quel “qualcosa” è l’ultima traccia di Ghost Reveries, la bellissima Isolation Years, che vede Mikael impegnato nella sola voce pulita. Finalmente il fantasma se ne è andato, almeno per ora.

Cosa rimane allora? Rimangono le paure, le incertezze, la solitudine. E la consapevolezza di avere tra le mani un capolavoro. L’ennesimo degli Opeth. Un lavoro sicuramente diverso, completo ed affascinante (anche se inferiore a Blackwater Park). Ritroviamo la durezza degli esordi, la tristezza di Still life e Blackwater Park, la rabbia di Deliverance e il profondo male di vivere di Damnation. Non sto esagerando: è senz’altro eterogeneo quanto profondamente logico, è una cella infestata dopo un’ora di libertà, una luna spettrale dopo una giornata di sole. Ricorderemo a lungo questo album.

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