Se è vero, come dice qualcuno, che il primo disco è sempre il migliore, Orchid degli Opeth sembra confermare questa regola. Già, perché quando si parla degli Opeth si tende soprattutto a ricordare album come “Still Life” o “Blackwater Park”, commettendo l’errore di trascurare i primi lavori, fra cui splende il loro fenomenale esordio. E’ difficile inserire la proposta della band svedese entro un genere, dato che essa non segue schemi ben definiti, diciamo che nel ’94 gli Opeth erano dediti ad un Death Metal melodico e decadente, macchiato dal Doom e forte di uno sviluppo progressivo, in cui il genio di Mikael Åkerfeldt, anima e voce del gruppo, brillava già di luce propria. I testi fatalisti chiudevano il quadro.

Come nella migliore tradizione Opeth, i brani, talvolta concatenati tra loro da suggestivi intermezzi strumentali, raggiungono una durata mediamente molto elevata, in modo da mettere in risalto l’estrema compattezza che lega l’intera opera; ma se pensate che canzoni della lunghezza di oltre dieci minuti possano risultare noiose, pesanti e ripetitive, siete fuori strada.
Le danze si aprono con “In The Mist She Was Standing”, e subito si delinea la profonda atmosfera generata dalla musica di Orchid, che si articola attraverso composizioni varie e raffinate, stabilmente costruite su una solida base ritmica e più volte violentate dal growling spettrale e al contempo animalesco del cantante. Il secondo pezzo, “Under The Weeping Moon”, mantiene le stesse caratteristiche generali del predecessore e vanta al suo interno uno dei momenti più emozionanti del disco: un sottofondo mistico dato da un arpeggio tenebroso su cui si posa la voce della notte, con i suoi rumori e lamenti che sembrano provenire dall’oscurità; in altre parole, un vero e proprio esempio di poesia sonora. Dopo la perfezione strumentale di “Silhouette”, suonata interamente da un pianoforte impazzito, l’ispirazione della band trova pieno sfogo nei 24 minuti complessivi di “Forest Of October” e “The Twilight Is My Robe”, in cui si viene realmente catapultati in un freddo bosco dalle tinte cupe, da cui sembra impossibile uscire. Un breve passaggio acustico chiamato “Requiem” accompagna l’ascoltatore verso l’ultima traccia, “The Apostle In Triumph”, introdotta da una chitarra graffiante cui segue la consueta tempesta di riff, e il viaggio riprende nel suo scuro splendore, tra paesaggi tetri e cieli purpurei, tra vaghe ombre e flebili luci, sino alla dissoluzione finale. Il viola è decisamente il mio colore preferito.

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