Selling Opeth by the pound...
..o anche: posso non prendere una posizione sull’ultimo degli Opeth?
Bene, non potevo scegliere titolo e sottotitolo più fuorvianti per iniziare a recensire uno dei dischi più controversi del momento.
Fuorviante il titolo perché citare il celeberrimo capolavoro dei Genesis, pietra miliare del rock progressivo, mi sembrava una scelta carina per introdurre il tema, ma non è affatto vero che gli Opeth si sono venduti, o abbiano ammorbidito il proprio sound, per il vil denaro: se si parla di svendita è perché oramai è chiaro che la band si sia radicalmente snaturata per andare incontro alle manie di protagonismo ed alla folgorazione per il verbo progressivo dell’antipatico Akerfeldt, indiscusso padre-padrone di una formazione che oramai non è altro che una schiera di gregari al suo servizio, tanto che ormai sarebbe più onesto intraprendere una carriera solista ed abbandonare definitivamente quel monicker che si è distinto con tanto onore nell’ambito del metal estremo (sono infatti uno di quelli che pensano che la forza dei vecchi Opeth fosse quella di essere una band vera e propria, e che qualcosa, ahimè, si sia perduto con l’abbandono del membro storico Peter Lindgren e del batterista Martin Lopez, che aveva saputo integrare con il suo stile fluido e dinamico la miriade di tasselli di cui si componeva l’ Opeth-sound della maturità).
Fuorviante il sottotitolo perché, in verità, una posizione sull’album la prenderò e la espongo subito: “Pale Communion”, con qualche "se" e diversi "ma", è un gran bell’album. Basta, l’ho detto, ed ora vi spiego il perché.
Come certo saprete, questo ultimo pluri-rimandato parto discografico targato 2014 conferma in maniera cocciuta ed ostinata le intenzioni palesate con il precedente “Heritage”, album che a me francamente non ha mai fatto impazzire, e che oggi costituisce uno spartiacque nella carriera degli svedesi. Il problema non riguarda il genere suonato: il fan degli Opeth è maturo per capire che la questione centrale non sta nell’abbandono della veste metal, bensì nel fatto che con il nuovo corso la band ha finito per immolare, con fin troppa leggerezza, molto di quanto era stato costruito faticosamente in passato (una progressiva maturazione artistica che aveva contemplato come fine ultimo quello di esprimere/generare emozioni), e lo immola sull’altare di uno sterile revival, figlio di una visione non ancora perfettamente a fuoco. Ma il pericolo della deriva manieristica viene in parte scongiurata con questo “Pale Communion” che, dopo svariati ascolti, si mostra fatto di una sostanza ben diversa rispetto al suo predecessore, sebbene ne costituisca la coerente evoluzione.
Beninteso, il primo ascolto è dominato da sensazioni quali rabbia e frustrazione, date dall’impressione (forse anche prevenuta) che i grandi Opeth siano divenuti irrimediabilmente una entità prevedibile e priva di personalità, intenta solo a sfoggiare gratuitamente tecnica esecutiva e a pescare a piene mani idee e soluzioni dal repertorio dei maestri del genere. I primi tre minuti dell’iniziale “Eternal Rains Will Come” confermano questa paura: l’impressione è che Akerfeldt si sia cagato sotto di brutto e che, nell’indecisione su come avviare l’album (più che un album un processo!), sia voluto andare sul sicuro e scongiurare ogni possibile critica con un inizio eclettico che potesse accontentare tutti, o almeno, nel peggiore dei casi, trovare una via di fuga nello sbattere in faccia all’ascoltatore l’elevatissimo tasso tecnico (come se ce ne fosse bisogno). E così, per le fobie di un artista testardo, ma non privo di incertezze, ci toccherà sorbire una pretenziosa iperbole strumentale a base di controtempi al cardiopalma ed intrecci selvaggi di chitarra e hammond (prima manciata di secondi), poi la quiete statica di un arpeggio inquietante (perché, a partire dal soggetto ritratto in copertina, la visione di Akerfeldt non vorrebbe rinunciare a quella componente dark che rimane l’ultimo appiglio ad un passato death/doom), una ripartenza (altre chitarre e tastiere che duellano in frenetica progressione – geometrie turbinanti che richiamano i Van der Graaf Generator più irrequieti), un’altra pausa (questa volta a base di pianoforte e languori di chitarra) e finalmente l’inizio della canzone vera e propria, alla resa dei conti una ballata che nel suo andamento ricorda la bellissima “Windowpane” dei bei tempi andati. E’ una fantasia di organo a dettare le coordinate su cui il pezzo si sviluppa (il tutto ricorda molto gli EL&P di “Tarkus”), palcoscenico su cui si staglia (al terzo minuto!) la voce impostata di Akerfeldt, moltiplicata in intrecci polifonici sempre più raffinati. Da evidenziare (nel bene) un bell’assolo liquido à la Hackett, e (nel male) il brusco finale, altra brutta faccenda con cui avere a che fare da quando gli Opeth hanno deciso di scrivere composizioni più brevi (anche se in questo “Pale Communion” – otto tracce per un totale di cinquantacinque minuti – la durata media dei brani si è accresciuta).
La successiva “Cusp of Eternity” (scelta come primo singolo) ribadisce lo stato di non-grazia della formazione, sviluppandosi come il solito esercizio rock a metà strada fra Led Zeppelin e Rainbow, un qualcosa di totalmente privo di mordente e con un ritornello che fa venire il latte alle ginocchia già al primo ascolto. Una criticità di questo album sta nella resa delle chitarre, meno presenti (enormi, invece, gli spazi concessi alle tastiere del bravo Joakim Svalberg), le quali non graffiano, non aggrediscono, non emergono con quella evidenza che si meriterebbe un chitarrista di razza come Akerfeldt (e se possiamo comprendere la decisione, oramai inappellabile, di abbandonare il growl, tecnica che in effetti penalizza, anche fisicamente, il percorso di crescita di un cantante che intende migliorare di album in album, diviene un mistero il motivo con cui si rinunci del tutto ad un approccio più heavy nell’utilizzo delle chitarre, laddove gli stessi Porcupine Tree del mentore/amico Steven Wilson hanno saputo confrontarsi con riff energici, senza peraltro snaturare il sound). E’ questo comunque l’unico difetto che possiamo rimproverare all’eccelso lavoro di Wilson svolto dietro al mixer: i suoni, infatti, sono nitidi, e l'operato del musicista/produttore inglese (fra l’altro inserito nella line-up ufficiale, a dimostrazione di quanto le sue scelte e i suoi suggerimenti siano stati utili ai fini della buona riuscita del prodotto) valorizza ogni singolo dettaglio di una proposta complessa e ricca di sfumature quale è quella degli svedesi.
Passiamo quindi alle buone notizie: si compie dietro le pelli un vero miracolo, dato che Martin Axenrot (a cui quel perfezionista di Akerfeldt avrà rotto i coglioni come non mai) dimostra di essere in grado di esercitare uno straordinario controllo sul suo strumento, sfoggiando un tocco, una precisione, una sensibilità che lo avvicina, come stile, all’eleganza e la leggiadria di un Phil Collins (un traguardo impensabile se si pensa al "pestone" che era il batterista quando entrò nella band). Se il bravo soldato Martin Mendez continua a fare con onestà il suo buon lavoro alle quattro corde, più anonima e meno incisiva è logicamente la prestazione del secondo chitarrista Fredrik Akesson, al soldo di un Akerfeldt pronto a farlo fuori ad ogni piè sospinto. Ed Akerfeldt?, che con la modestia che lo contraddistingue si presenta con le vesti del joker nelle illustrazioni di retro-copertina in cui membri della band sono ritratti su cinque carte da gioco? Egli è migliorato senz’altro come cantante, estendendo ulteriormente la sua ampiezza vocale, curando in modo maniacale le armonie nelle frequenti sovra-incisioni. Ma soprattutto cresce come autore, o meglio, sembra più a suo agio, appare più naturale e disinvolto in un contesto che non è più quello metal.
In definitiva, forti di una maggiore coesione interna, e dietro all’accorta regia di Wilson, gli Opeth firmano un coinvolgente capitolo di neo-prog, sulla falsa riga di quanto operato dall’amico/mentore in veste di solista. I dieci minuti di “Moon Above, Sun Below”, per esempio, intrattengono e regalano degli ottimi momenti, a partire dalle ambientazioni moderniste iniziali (cortesemente scippate ai Porcupine Tree – avete presente quando i Porcospini si fanno più ipnotici, dub, notturni?), fino alle strofe finali che rievocano (finalmente!) gli Opeth dei tempi di massima ispirazione, vero canto liberatorio dopo indicibili cambi di strategie, fra Dream Theater, Tool e i soliti altri.
“Elysian Woes”, altra ballata crepuscolare, costituisce un ulteriore momento di grande suggestione, e quando partono batteria e mellotron, e l’Akerfeldt ci canta sopra, sembra realmente di tornare ai fasti di “Damnation”. Se tuttavia il brano sembra concludersi troppo in fretta, possiamo tranquillizzarci guardando alla strumentale “Goblin” (sfacciato tributo ai nostri Goblin) come alla sua indispensabile coda (gran lavoro, in questo frangente, da parte di tutta la squadra, ed in particolare dell’oramai indispensabile Axenrot a dettare i tempi). “River”, nella sua prima metà, ci piace di meno, in quanto ci restituisce un Akerfeldt che corteggia in modo sfacciato il folk/rock della soleggiata California (o forse voleva più semplicemente scrivere la sua "Lucky Man"? Fatto sta che il risultato è un po' troppo pop per chi pretende di fare un dark-progressive le cui muse sono, senza tanti fraintendimenti, i King Crimson, i Van der Graaf Generator e tutte quelle band oscure, più o meno sconosciute, del sottosuolo progressivo degli anni settanta, Comus in primis); decisamente meglio la seconda porzione, una scatenata festa prog, con coinvolgenti punte di hard-rock, che rimette le cose a posto ed introduce alla fase finale dell’album, quella a mio parere più entusiasmante.
Gli otto minuti di “Voice of Treason”, probabilmente la migliore (e più sorprendente) delle otto tracce, viaggiano sull’incalzare di orchestrazioni ripetute in loop e sulle ritmiche metronomiche della batteria sincopata di Axenrot, qui in una delle sue migliori prove quanto a precisione e capacità di sintesi (in un brano del genere, come nel successivo, non avrebbe guastato un intervento più invasivo da parte dell’elettronica), fino all’esplosione irresistibile nel finale, nel quale i Nostri si ricordano di essere un collettivo e di saper costruire qualcosa insieme. L’importante, soprattutto, è che per almeno una volta si sia lasciata in cantina la reverenza verso le glorie degli anni settanta, e ci si sia spinti, anche a prezzo di rubare una o due idee al Wilson solista, su un fronte più personale e realmente avanzato. La conclusiva “Faith in Orders” è invece il ballatone strappalacrime da cui emerge l’Akerfeldt fragile cantautore, la cui voce è oramai uno strumento perfettamente accordato. Un andamento trip-hop, archi di orchestra sfoggiati in primo piano, una prova vocale strepitosa (sebbene leggermente filtrata) sono gli ingredienti di un brano in cui gli Opeth guardano sì alla Corte del Re Cremisi, ma lo fanno senza snaturare la propria identità e con un approccio giustamente più moderno ed al passo con i tempi. Ecco: se il futuro della band dovesse passare da queste parti, direi che ci sono buoni motivi per sperare in un avvenire radioso per Akerfeldt e compagni, che sinceramente avevo dato per perduti dopo la deludente prova di “Heritage”.
E’ forse ormai estinta la fiamma che ha animato capolavori irripetibili come “Still Life”, “Blackwater Park” e “Deliverance”, ma il talento di Akerfeldt (se ben consigliato ed ammaestrato dal saggio Wilson) è troppo grande per rimanere impantanato nelle sabbie mobili del citazionismo. “Pale Communion” ci insegna che se gli Opeth intendono costruirsi una via personale e trovare una rinnovata dimensione di forte affiatamento come ensemble, anche all’interno del nuovo paradigma sono capaci di grandi cose.
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