Questi sono gli Opeth del 2016, prendere o lasciare. Per chi ha seguito l'ormai lungo percorso della band scandinava, l'arrivo di "Sorceress" era l'ultimo tassello produttivo di un gruppo che da ormai 5 anni, dal controverso "Heritage", ha cambiato lato della strada, lasciando da parte il prog/death mutevole che aveva fatto la loro fortuna per approdare ad un prog rock di chiara matrice seventies. Quest'anima era ben presente e percepibile anche nei lavori precedenti ad "Heritage" e si rifà ai grandi numi tutelari del genere, a partire da Camel e King Crimson.

Ora, approcciarsi ad un lavoro di Akerfeldt e soci non è mai un compito semplice: i dischi degli svedesi sono sempre dei parti complessi, pieni di cesellature, variazioni, elementi sinfonici e strumentali che si mescolano. La classica frase "disco che necessita di più ascolti" con loro è quantomai azzeccata. Anche in questo caso non si scappa, sebbene "Sorceress" sia uno degli episodi più "stringati" della loro carriera a livello di minutaggio.

Entrati nel mood del disco i primi approcci spiazzano: tanti elementi, molte sperimentazioni sui suoni, divagazioni strumentali più o meno convincenti, Akerfeldt che naturalmente canta in clean e la solita perizia tecnica. Un insieme che a conti fatti si fa fatica a decifrare completamente, data anche la conformazione stessa del cd, un po' un saliscendi di qualità. Passato il folk introduttivo di "Persephone", la titletrack è subito una stranezza per gli Opeth. Un pezzo epico che è pesantemente debitore dello sludge e richiama il sound Mastodon di "Crack the Skye". Una novità che riesce grazie alla sua marzialità circolare, mentre "The Wilde Flowers" e "Chrysalis" sono tecnicamente ineccepabili ma di rara freddezza, oltre a perdersi in una moltitudine di linee vocali. Il sentore è lo stesso che il sottoscritto aveva sentito ascoltando il precedente "Pale Communion": un insieme di qualità e tecnicismi ma anche un po' di puzza di manierismo, tra pulizia sonora ridondante e un'emozionalità che non riesce mai a decollare, come se persi i contrastri abrasivi tra riff e chitarre acustiche, tra growl e clean del passato, gli Opeth abbiano un po' smarrito la loro anima. "Will O The Wisp" è una ballata toccante, delicata, semplice, una delle cose migliori del disco, lo stesso non si può dire di "Sorceress 2", piattissima e che non offre particolari spunti di riflessione.

Degli Opeth, della loro carriera, del loro cangiante modo di essere, si possono dire tante cose, la stragrande maggioranza delle quali di carattere positivo. Chi scrive è uno di quelli che ha visto di buon occhio la virata di sound con "Heritage", ritenendo che quello fosse l'approdo naturale per una band che anche nel magma del death aveva mostrato di essere un multiforma impossibile da imprigionare in schemi precisi. "Pale Communion" è stata una conferma, per quanto non sia un lavoro trascendentale, ma con "Sorceress" la sensazione che si insinua sottopelle è quella di una band che sta pericolosamente sfiorando il manierismo compositivo. Se "The Seventh Sojourn" stupisce per i suoi ritmi orientaleggianti e delle architetture che ritrovano armoniosità, molti altri brani rimangono nell'anonimato più assoluto, come "A Fleeting Glance" che fa pericolosamente il verso ai Jethro Tull senza dire nulla o il ritmo ripetitivo di "Era". Un miscuglio di cose che funzionano bene ed altre meno, un insieme di idee che non si sostanziano in nulla di coerente, una "liquidità" di fondo che però non ha sempre delle cose da dire.

Per la prima volta, sebbene ripetuti ascolti, faccio fatica a comprendere gli Opeth, ancor prima di apprezare o meno il loro album. La sensazione che si ha è quella di una compagine che sta diventando il classico gruppo che è stilisticamente impeccabile, tecnicamente ineccepibile ma che alla fine non ti ha lasciato nulla.

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