Pensavamo che gli Opeth si fossero abbonati al progressive rock in maniera definitiva e irreversibile, in particolare il fan non molto amante del nuovo corso aveva gettato la spugna e riposto nel cassetto ogni speranza di vedere ancora gli Opeth suonare alla vecchia maniera… e invece eccoti l’album che non ti aspetti.
Ricordo ancora quando uscì “Heritage”, con il suo prog-rock fortemente derivativo che abbandonava chitarroni pesanti e voce in growl, ricordo la community opethiana dividersi fra chi apprezzava la scelta di rottura col passato e chi invece ne criticava la mancanza di idee. Ricordo poi quando andai a vederli in quel tour all’Alcatraz, quando non contenti della sorpresa in studio sorpresero una seconda volta anche dal vivo proponendo una scaletta totalmente priva di brani cantati in growl. Come se Mikael Åkerfeldt ne avesse abbastanza di cose pesanti. Nei tour successivi i brani in growl torneranno in scaletta ma il percorso in studio proseguirà sotto la stella prog-rock per altri tre album; se all’inizio di questo percorso la proposta era eccessivamente derivativa, con un eccessivo debito verso gruppi come Camel e King Crimson, gli Opeth hanno saputo pian piano metterci del loro, rendendo sempre più personale quello stile; a mio avviso con l’ultimo “In Cauda Venenum” gli Opeth avevano raggiunto l’apice creativo come band progressive rock, era un disco sempre un po’ debitore ma che nel complesso suonava Opeth, dimostrava a tutti che gli Opeth erano perfettamente in grado di dire la loro anche in qualità di band progressive rock.
Qualcosa però dev’essere scattato nella testa di Åkerfeldt, difficile stabilire se si tratta di nostalgia del passato, risposta alle critiche o semplicemente voglia di cominciare un nuovo percorso. Ed ecco che gli Opeth si ripresentano con “The Last Will and Testament”. L’album è un concept ambientato dopo la fine della prima guerra mondiale e consiste fondamentalmente nella lettura di un testamento di un padre di famiglia, testamento che rivela segreti familiari scioccanti; già la struttura stessa del concept colpisce, 7 delle 8 tracce infatti non hanno titolo e sono semplicemente indicate con un simbolo grafico e un numero, rappresentano semplicemente i paragrafi del testamento, solo l’ultima ha un titolo vero e proprio. Ma la cosa che sorprende di più sono le sonorità: in quest’album, dopo una bella quindicina d’anni, tornano prepotenti chitarre pesanti e voce in growl, manna dal cielo per i nostalgici del vecchio corso. Bisogna però fare una serie di considerazioni, perché si tratta di tutto fuorché uno sterile ritorno alle origini o un mero esercizio di stile. Assolutamente non è un ritorno al death metal grezzo di “Morningrise” né a quello più incattivito ed evoluto di “Blackwater Park”, non si respira quell’atmosfera da foresta di conifere nordeuropea tardo-autunnale; onestamente non sarei nemmeno così sicuro di definirlo “death”, non ha quel tipo di riff graffiante e drammatico tipicamente death, non ha quelle cavalcate, ma nemmeno quelle elaborate parti acustiche folkeggianti. L’atmosfera è invece piuttosto gotica, un po’ inquietante, quasi noir, da film horror, un mood mai appartenuto alla band finora, alcune parti hanno davvero un piglio molto teatrale e cinematografico, specie quelle lente, che fanno da intro o da outro o che si inseriscono in mezzo per spezzare il ritmo.
In ogni caso il ritorno al metal non è totale e perentorio, in alcuni brani i riff duri sono più presenti, in altri decisamente meno, ci sono brani tranquillamente ascrivibili al metal e altri che invece è più corretto inserire ancora nel prog-rock; in altri casi poi il metal è piuttosto rarefatto tanto da sembrare una specie di heavy rock più potenziato, come se si attingesse dall’album “Sorceress” e si facesse un upgrade. Nel complesso possiamo affermare che le radici sono ancora piantate lì, la solida base su cui i brani si fondano è ancora prog-rock, i riff pesanti e i growl vi si poggiano semplicemente sopra. Gli organi distorti e i robusti mellotron, costituiscono ancora il terreno argilloso su cui si edifica il tutto, dominano anche gli arrangiamenti d’archi, che creano un ideale collegamento con il precedente album. A che album paragonerei, se proprio dovessi, “The Last Will and Testament”? Con chi lo imparenterei? Molto probabilmente con “Watershed”; quello era il disco in cui la componente prog di stampo settantiano cominciava a prendere il sopravvento e quella death metal era ancora presente ma non più troppo dominante. Non erroneo nemmeno il paragone con un “Ghost Reveries”. A mio avviso quella fase intercorsa fra il 2005 e il 2008 è durata troppo poco. Era un momento cruciale per gli Opeth: l’inserimento delle tastiere, l’apertura verso sonorità metal più moderne e più alternative e il generale ridisegnamento ritmico e strutturale potevano rappresentare una vera e propria nuova fase artistica della band, ma hanno preferito svoltare subito verso il prog-rock classico, interrompendo un discorso che secondo me si poteva portare avanti per altri due album. Bene, “The Last Will and Testament” sembra essere proprio il seguito mancato di “Watershed”, sembra il disco ideale con cui si poteva portare avanti quel discorso, sembra si riparta da lì.
L’album comunque stupisce sotto diversi aspetti. La varietà di soluzioni, riff e ritmiche è impressionante, c’è un filo conduttore ma non si ripete mai lo stesso riff. Non mancano poi trovate anche spiazzanti, come l’uso insolito dell’arpa nella quarta traccia, l’influenza vagamente araba della quinta o il flauto traverso di Ian Anderson in alcune tracce (pare che Åkerfeldt tentò di contattarlo già per suonare nella traccia “Famine” in “Heritage” ma senza ottenere risposta), o anche un ospite improbabile e inatteso come Joey Tempest degli Europe (cosa c’entrano gli Opeth con gli Europe, a parte la nazionalità…?), che tuttavia non canta ma solo recita alcuni versi. Poi grazie al nuovo batterista Waltteri Väyrynen abbiamo probabilmente le migliori parti di batteria di sempre; molto vario anche il lavoro del già rodato bassista Martín Méndez, che offre anch’egli la sua miglior prestazione, spaziando dalle ritmiche jazzate a quelle più lente e sinistre, dalle ritmiche danzanti del folk a quelle più spregiudicate e funk, in ogni caso sempre con grande varietà, anche lui non suona mai uguale.
Scorrendo sulle tracce possiamo dire che le prime due sono quelle probabilmente più metal e in un certo senso più immediate, la prima soprattutto lascia il segno con il suo ritmo ossessivo e massiccio. La terza invece di metal ha giusto qualcosina e non presenta growl, è prossima semmai al prog più ruvido di “Sorceress”, è una sorta di cavalcata il cui ritmo è scandito dal basso e attraversata da brillanti arrangiamenti orchestrali. La quarta sfodera le cavalcate metal nella prima e nell’ultima parte, mentre nella parte centrale trova spazio prima l’assolo d’arpa poi l’assolo di flauto di Ian Anderson pienamente nel suo stile (il leader dei Jethro Tull ha annunciato la sua presenza nell’album ancor prima che gli Opeth rilasciassero dichiarazioni circa un nuovo album). Il quinto paragrafo, uno dei momenti più interessanti del disco, presenta invece brillanti arrangiamenti orchestrali e sofisticate parti acustiche, ha un’evidente inflessione mediorientale, segnata anche da percussioni minimaliste e strani loop elettronici nella parte centrale, solo sporadicamente diventa aggressiva ma quando lo fa lo fa alla massima potenza, con i riff più pesanti dell’intero album, staffilate che potrebbero ricordare i KoRn in una versione nettamente più imbufalita. Il sesto paragrafo ha nel suo punto di forza l’incredibile groove, le parti di basso vagamente funk della prima parte rimandano perfino ai primi Faith No More, un groove che segna l’intero brano ma la parte conclusiva, quasi a far da contraltare, è lentissima, sognante e sublime. Nella settima traccia le parti metal sono talmente rarefatte e levigate da non sembrare nemmeno tali, mentre la conclusiva ed unica titolata “A Story Never Told” è puramente prog-rock, è il perfetto retaggio della fase artistica precedente, è lenta e rilassata e rievoca vagamente i vecchi Camel più suggestivi e sentimentali.
Possiamo dire che “The Last Will and Testament” è stato il disco sorpresa dell’anno 2024, quello che ha restituito una band in una versione che sembrava ormai persa e che pensavamo non avremmo mai più risentito, ma lo ha fatto in una nuova e completamente rinnovata veste senza divenire una mera operazione nostalgia. A metà fra un “Watershed”, un “Sorceress” e un “In Cauda Venenum” quest’album potrebbe rappresentare a tutti gli effetti l’inizio di un nuovo corso ma è ovvio che solo i dischi successivi potranno dirlo.
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