E’ difficile capire la portata di un album come “You can’t hide your love forever” se non lo si è vissuto nel contesto particolare in cui fu generato. Erano i primissimi anni ottanta, tempi oscuri per la musica alternativa, “dark” per l’appunto. I suoni del dopo/punk erano coraggiosi e innovativi, sicuramnte affascinanti ma quasi sempre pesanti come macigni. Aggiungo che spesso le facce dei loro interpreti erano tristi come se fosse appena morto il gatto, addirittura lugubri e vampiresche nel caso di bands come Bauhaus e Killing Joke. Tutti, indistintamente dalla maschera che portavano, rincorrevano il fantasma dei Joy Division e ne adoravano lo stile freddo ed essenziale. Oggi, con l’indubbio vantaggio della prospettiva storica, il difetto più grande dell’intero movimento post punk fu quello di prendersi troppo sul serio, gente che si sentiva Salinger solo perché aveva scritto due testi disperati e quattro accordi in minore. Il rischio di stereotiparsi a dei modelli inarrivabili come Ian Curtis e Siouxsie Sioux, senza averne ne l’appeal ne il curriculum, diventò una cattiva abitudine di molti londoners.
Altrove invece, su nelle highlands scozzesi per la precisione, dove per 10 mesi l’anno se esci senza sciarpa ti becchi la polmonite ed è meglio starsene a casa a strimpellare oppure a trombare, c’era chi la pensava molto diversamente. Gli Orange Juice di Edwyin Collins, ex Nu Sonics (un nome, un programma…) avevano idee diverse e riuscirono nell’impresa di rivalutare una musica intrisa di ottimismo, peraltro prendendosi pochissimo sul serio. Per quei tempi, l’approccio era estremamente sfidante e non si esauriva con queste premesse. Come molti loro coevi, gli Orange Juice guardavano alla New York underground del CBGB’s ma sorprendentemente anche a quella sfavillante dello Studio 54, feticizzando ognuno dei due riferimenti in egual misura. Il merito di Edwyin Collins e del suo mentore Alan Horne, fu quello di notare che la "musonaggine" post punk aveva un pò rotto le palle. E musicalmente, l'intuizione fu quella di accostare il chitarrismo agitato e acuto dei Velvet Underground con quello funk graffiante degli Chic e con gli accordi in staccato del Northern Soul. Insomma, un pudding musicale in pieno stile scozzese, cornamuse e gonnellini a parte.
Una manciata di singoli che definire memorabili è decisamente poco, se pensiamo alla bellezza immacolata di canzoni come “Blue Boy” e “Simply Thrilled honey”. Ah, apro una parentesi: se per caso ne avete qualcuno in casa, magari con la cover originale, faccio uno sforzo e ve lo scambio volentieri con l’ultimo cd di Mahmood o di qualche altra merdaccia scappata dai talent... Poi l’inevitabile fuga degli OJ dalla magnifica ma dilettantesca Postcard Records di Alan Horne, una rapida comparsata alla Rough Trade e l’approdo su Polydor, un porto sicuro da cui far salpare l’album d’esordio. “You can’t hide your love forever” è forse il disco la cui uscita ho aspettato con maggior impazienza. Ancora ricordo quando Alberto Campo lo annunciò distrattamente su Radio Flash, tra l’esordio dei 23 Skidoo e il nuovo cupissimo The Comsat Angels. Erano i tempi nei quali la Postcard si era autodefinita, con orgoglio e sfrontatezza, “Il suono della giovane Scozia” ed io impazzivo per il cappellino da David Crockett di Edwyn Collins e per quelle buffe grafiche piene di gattini coi tamburi, che ho scoperto molti anni dopo appartnere alla magnifica penna di Louis Wain. Schizzai sul motorino come un Bastianini del secolo scorso e mi presentai da Rock and Folk con pochissima pazienza, costringendo Alberto stesso a vendermi la sua copia personale, tanto lui mi disse che preferiva i Pigbag (!?). Mi sa proprio che quella volta l'affar lo feci proprio io...
Ricordi personali a parte, “You can’t hide your love forever”, il debutto major degli Orange Juice, esce finalmente nel febbraio del 1982 e riesce ad arrampicarsi sino al numero 21 nelle charts inglesi, infestate di gruppi “new romantics” e schifezze miste. Come tanti altri album realmente innovativi, non venne capito a fondo e si perse troppo rapidamente nel tritacarne musicale degli anni ottanta, salvo poi essere ripescato ciclicamente come uno dei dischi veramente seminali di quell’epoca. In realtà quelle di “You can’t hide your love forever” sono canzoni semplici, di grande spontaneità ed innocenza, decisamente fuori dal loro tempo e anche per questo senza tempo. E sopratutto molte delle scelte presenti in “You can’t hide your love forever”, che le si trovi interessanti o meno, sono state le prime del loro genere e questo non può esser dimenticato.
L’album si apre con “Falling & Laughing”, leggermente edulcorata rispetto alla mitica versione su Postcard, ma parimenti ammaliante. Fu il pezzo che più di ogni altro contribuì a definire gli Orange Juice come gli artefici quasi “accidentali” di gran parte di quello che sarebbe poi diventato universalmente noto come “britpop”. E’ una canzone che unisce quella linea immaginaria che parte dai Four Tops e arriva fino ai Clash, se mai ne sia esistita una. In qualsiasi caso, “Falling & Laughing” è una gemma di lirismo giocoso che riesce miracolosamente a coniugare vulnerabilità e durezza, nella scommessa vinta di far convivere il soul di George McRae con il jingle jangle dei The Byrds. Per me potrebbe essere l'inno della Champions League da tanto mi emoziona tutte le volte risentirla.
A parte la successiva “Untitled Melody”, a mio personale parere la più scontata dell’intero lotto, il resto del disco non ha cadute di tono. Che dire ad esempio di “Wan Light”, una superlativa “popsong per mancini”, scritta e cantata dal talentuoso chitarrista James Kirk. O di “Tender object” che riporta ai primi fasti Postcard e ricorda in parte il chitarrismo nervoso dei cugini Josef K? Tanta roba ragazzi. E del classico non classico, “Dying Day”, recentemente ripresa dagli eterni fans Teenage Fanclub, un pezzo squisitamente pop con un testo ironicamente romantico ed una melodia strepitosa. Mi sorprese ai tempi, in chiusura di prima facciata, la cover di “L.O.V.E” di Al Green che fu lo spiazzante singolo a supportare l’uscita dell’album. Molti si chiesero cosa c’entrasse lo stile Memphis Sound con il punk scozzese. Tempo dopo ho capito che la risposta stava tutta in questi tre minuti di miracoloso equilibrio soul pop, con tanto di fiati e coretti. Deliziosa.
La seconda facciata del vinile è ancora meglio. Si apre con la vivace “Intuition told me” e subito dopo con lo splendido jangle mood di “Upwards & Onwards”, una delle mie preferite in assoluto. Poi la rutilante “Satellite city” ad anticipare la svolta pseudo funky del gruppo di “Rip it up”. E la successiva scoppiettante “Three cheers from our side”, ancora una volta farina del sacco di James Kirk ed ancora un pezzo vincente, con un suono limpido e scintillante, sotto le false spoglie di un divertissment ingenuo. Poi tutti in piedi per “il classicone“ del Caledonia sound, quella “Consolation Prize” che anni dopo Edwyn interpreterà sul palco insieme al suo idolo Mick Jones e all’amico di sempre Roddy Frame; andatevi a cercare la versione live su Youtube, è goduria pura! Ma se proprio devo scegliere l'asso dal mazzo, allora io scelgo “Felicity”, già in scaletta coi Nu Sonics, una "three minute song" che sprizza entusiasmo da tutti i pori. Un crescendo strepitoso, con quel ritornello gioioso che io urlavo con la scopa in mano a mo’ di microfono, mentre mia madre dall’altra stanza mi sbraitava di abbassare il volume che altrimenti... capirete, erano belle soddisfazioni già da giovane. Chiude il disco la lenta “In a nutshell” che, seppur intrigante, risulta alfine un pò scontata per chi, come me, non ha mai amato l’Edwyn Collins in versione crooner.
In definitiva, la forza di “You can’t hide your love forever” fu quella di dimostrare che il post punk poteva virare in una direzione differente, che si potevano infondere ritmiche Stax e Atlantic Soul in un suono tradizionalmente “new wave”, grazie ad indovinate linee di basso che, adesso la sparo grossa, non sarebbero assolutamente state fuori posto su un disco di Stevie Wonder. L'album fu la dimostrazione che si poteva suonare musica alternativa, ma con il sorriso sulle labbra anzichè con un palo infilato nelle chiappe. Il che non significava necessariamente salire su una barca con un mucchio di figa come i Duran Duran oppure vestirsi da pirata dei Caraibi come Adam Ant. C'era un'altra possibilità e gli Orange Juice lo dimostrarono.
Da un'altra prospettiva, l’album rappresenta come pochi altri dischi lo spirito alternativo degli inizi degli anni 80, anche se paradossalmente fu edito da una major. Sicuramente la produzione di Adam Kidron (ma chiccazzo era poi?) smorzò in parte l’energia contagiosa e caotica dei singoli Postcard. Ma quello che rimase immutato fu la carica emotiva del gruppo. Le canzoni non sono dei capolavori, va bene e non le troverete mai nelle charts “minestroniche” di Rolling Stones, accanto ad “Imagine” e “Stairway to heaven”. Ma non credo sia realmente importante. E’ il grande patrimonio di attitudine e stile consegnato a quanti sono venuti dopo che costituisce la cifra reale del disco, al di là delle canzoni stesse. Senza un gruppo come gli Orange Juice non sarebbero esistiti gli Smiths e tutto il filone C86 che generò etichette stupende come la Creation e la Sarah Records, fino all’onda lunga del nuovo secolo che ha regalato band interessanti, come i Belle & Sebastian ed i Franz Ferdinand.
La storia ci racconta che a fine 1982 uscì poi “Rip it up” e, grazie al fortunato singolo omonimo, Edwyn incominciava la sua carriera “mainstream” di interprete e produttore di modesto successo. Ma a quel punto James Kirk se n’era già andato e con lui gran parte della magia di quel suono acerbo ma irripetibile. E se Collins viene ricordato oggi, ad anni di distanza dal “terribile coccolone” al quale è miracolosamente sopravvissuto (per la gioia di sua moglie, mia e di tutti i suoi fans), è più per quel disco innocente, coi delfini che sguazzano felici in copertina, che per tutto il resto. Ed anche il fatto che che sia l'unico vero album che il team di Collins e Kirk ha realizzato insieme, prima di dividersi per sempre, lo rende ancora più unico ed essenziale da possedere. La Scozia, quella eternamente giovane, per me è rimasta tra quei solchi.
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