Un viaggio ipnotico al di là della realtà verso lidi sconosciuti, spazi immensi e persone minuscole, urla perse nel vuoto, paranoie e allucinazioni, naufragi spaziali e mentali in lidi a metà fra psichedelia e space rock.
Interessante? Eccome! Questi Orbit Service hanno realizzato davvero un buon lavoro, dietro massicce dosi di space-rock e uno stile alquanto vicino ai buoni Radiohead, specie nelle linee vocali. La musica di questa band è parecchio rarefatta - e in questo ricorda certo i Pink Floyd di Echoes - e soprattutto spaziosa, o meglio, spaziale: aperta, vasta, gioca molto sul contrasto fra silenzio e suono.
La strumentazione è composta da una chitarra, chiaramente ben effettata, una sezione ritmica basso+batteria davvero "sottile" e minimale, un synth che passa da classico pianoforte ai più futuristici synth. La voce, spesso contornata di debiti riverberi ed echi, è un punto forte: tragica, forte, emotiva, spassionata.
La storia dietro a questo album è quella di un naufragio spaziale: apre Wolves, dannatamente bella nei suoi semplici giri, la consapevolezza della perdita, ed è poi tutto un crescendo di emozioni contrastanti, a volte rilassanti (la lunga Asphyxia), altre volte paranoiche, deliranti (A Hallucination, Sparrows), per culminare nella profonda rabbia e forza di Halos, quando l'unica ancora di salvezza, l'unica speranza dei naufragi spaziali, è ormai lontana, persa: e da qui seguono le conclusive Bruises, melodrammatica e rassegnata, dominata dai vuoti sonori e dal crescendo multicolore di tastiera e chitarra (che ricordano qui gli Hawkwind di Space Ritual), e l'ultima, minimale No Longer Do We Dream, degno epilogo di una gemma straordinaria e di una delle migliori sorprese di questo 2006.
9-/10
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