Storia essenziale della musica elettronica

 

XII. Acidi tribali nell'era rave

 

Negli anni '50 Stockhausen giocava con gli oscilloscopi e Berry incitava i rocker di campagna.
Nei '60 Moog costruiva sintetizzatori e i Beach Boys cicalavano coi surf.
Dieci anni dopo Schulze ficcò i synth anche nel citofono di casa. Moroder piazzò i synth in discoteca da qui all'eternità.
Nel 1980 i Kraftwerk fecero un'orgia cibernetica, i Depeche Mode fecero un'orgia techno pop, i Throbbing Gristle fecero un'orgia e basta. 

La musica è sacra e profana. Ha due componenti logiche: la teoria e la pratica, e in ogni anno, decennio, secolo, si è sempre estrinsecata in atto di pensiero e viaggio ludico. Gli '80 erano stati gli anni della new wave, delle ballate synth pop, della baruffa disco tra gli Heaven, Eurhytmics e Blondie, ma anche dei soliloqui colti di Tom Waits, dell'angoscia industriale degli Einstürzende Neubauten, della psicosi depressiva dei Jesus & Mary Chain.C'è una certa soluzione di continuità sullo scenario degli anni '90, quando si ripropone ancora una volta l'usuale dicotomia tra studio per l'ascolto e musica da ballo: se i fenomeni più segreti e sperimentali fanno riferimento al revival psichedelico di Julian Cope e Mercury Rev, al post-rock di Tortoise e Mogwai e alla febbre da cut 'n' paste elettronico di Aphex Twin, Autechre e Mu-Ziq, la "Music for the Masses" di depechemodiana memoria si esplica nei codazzi house inaugurati da Frankie Knuckles, nell'Eurodance di Corona e nella trance nordeuropea di Tiësto e Van Buuren. Esattamente a metà tra sperimentazione da camera e sabba elettronico si pone il più emblematico e singolare dei fenomeni dei '90, la rave music, genere musicale in cui la più anarchica fronda giovanile consuma la sua catarsi tra elettroshock esagitati e cocktail di droghe e vetriolo: in capannoni abbandonati e sotterranei disabitati prende vita un febbrile ballo ispirato alle produzioni elettroniche underground che prendono le distanze dalle convenzionali fanfare da discoteca a cui soggiace la cultura giovanile di mainstream.

Lo sviluppo dei rave party nei '90 prende le mosse dalle sensazioni techno-house della Detroit di fine '80, fucina di quella produzione musicale che verrà a breve riconosciuta col nome di acid house (chiaro riferimento al sodalizio naturale tra musica e droga) e che farà il paio con la techno squisitamente europea in grado di fare la storia dei party rave del vecchio continente. Ancora una volta è l'Inghilterra a far da padrona: tra la fine degli '80 e l'inizio dei '90 la scena viene popolata dai nomi illustri di Orb, Prodigy, Future Sound of London, Orbital e Underworld. La cifra comune è  l'evasione elettronica, performata attraverso suite ambient-house, vortici techno-hip hop e lunghi decoupage cut 'n' paste. In un panorama musicale che vede assurgere agli onori delle masse prima i Prodigy (col manifesto rave Music for the Jilted Generation del 1995) e poi gli Underworld (con Beaucoup Fish del 1996, ma soprattutto col singolo Born Slippy di un anno dopo), la sperimentazione più lungimirante è quella degli Orbital. Il duo britannico inaugura la scena all'inizio del nuovo decennio con il primo volume conosciuto come Green Album, geniale pamphlet autoesplicativo della rave culture: il marchio di fabbrica è il campionamento, la continua teoria di sovraincisioni e patchwork eterogenei che svela e nasconde la traccia musicale sotto una coltre di strati ritmici e melodici. Green Album sorprende subito sin dall'inizio, quando nell'etereo apripista "Belfast" un impensabile campionamento di un inno della benedettina Ildegarda von Bingen (XI secolo) si diluisce in una sequenza di tastiere fluttuanti che rimandano alla "Moments of Love" degli Art of Noise: in un'atmosfera che sembra tanto lontana dalle macumbe frenetiche di Keith Flint dei Prodigy, i sette minuti più controversi dell'album si concedono il lusso di trascinarsi lentamente verso un esizio minimalista, tanto sorprendente quanto anticonvenzionale. Ovviamente tutto è destinato a cambiare: con i battiti labirintici di "The Moebius" prima e con i campionamenti funky di "Speedy Freak" poi, si è già in piena febbre da rave: Phil e Paul Hartnoll tagliano e cuciono ritmiche impervie con attenzione pressoché chirurgica, confezionando perfetti bozzetti per danze vertiginose e febbricitanti. A questo punto diventa imprescindibile "Satan", che pur entro i binari della techno ipnotica di Detroit, si consuma tra fughe di sintetizzatori e vocalizzi feroci: il brano si pone subito tra i must ballabili dei rave party, facendo il paio con "Choice", che completa spazialmente e temporalmente il precedente pezzo, incrociando le orbite industrial dei Front Line Assembly. Se quindi la cifra stilistica degli Orbital è l'operazione di inserzione e sovraincisione dei ritmi, le divagazioni trance di "Desert Storm" e "Midnight" non devono stupire, ma confermare il concetto, definendo i contorni precisi di un'opera di valore specifico nel panorama della rave culture: ogni quadro include, ricaccia, sottointende, comprende ed esclude ognuno degli altri quadri, in una visione cannibalistica di Dalì in cui la musica rinasce dalle sue stesse ceneri.

Gli Orbital stabilizzeranno il loro pensiero musicale due anni dopo col manieristico Brown Album, capace di formalizzare la cultura rave in un lavoro ancor più ragionato e organizzato: il loro dogma diventerà spunto e ispirazione non solo per la scena dei party inglesi, ma per l'intera musica techno di consumo grazie al discreto successo internazionale di In Sides del 1996. In un'epoca in cui il disagio giovanile bara attraverso i vuoti miti popolari della MTV generation, sopravvivono ancora i desolati paradisi catartici della depressione rave.

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