Mentre divora i colori non vuol vedere la luce, non gli serve, vuole solo rendere suo ogni morso di blu duro, di  rosso, marrone, di verde amante del viola, ma niente giallo, quello non gli va proprio giù. Con i denti stringe il nero e quante più trasparenze riesce a rubare. Succhia i profumi e si concede una lacrima odor del ghiaccio, della neve notturna. Sfiora i castelli, i prati e le grida del suo secolo con il dorso della mano, cercando il rame e l'argento unti dal loro ossido, saggiando l'elettricità quando diventa blu e frizza sulla lingua, rigurgitando la nebbia del tempo che lo assassina.

Tutto questo è Orbitalis, in questo preciso istante che mi sono voluto concedere per dare voce psichica al mio lato sinestetico, cercando di entrare nel suo mondo. Perchè non è possibile affrontare "Day One" senza abbandonare il controllo dei sensi, senza usare l'occhio del bambino. Cercare di incasellarne gli elementi in questo o quest'altro genere è insensato oltre che impossibile. Non fatevi ingannare dalla quiete apparente delle sonorità: quest'album urla, e sono urla disperate, angoscianti, squassanti. Sarebbe semplicistico inquadrarlo come colonna sonora per giustificarne i variopinti contenuti. In questo caso il peso emotivo è molto più slanciato, in quanto la ricerca delle sonorità è svincolata da cementificazioni immaginifiche. In una qualsiasi soundtrack si parte sempre dall'opera retinica, sulla quale poi si erige la musica secondo l'impianto stilistico e percettivo del compositore. In questo caso invece l'operazione è capovolta: siamo dinnanzi ad una composizione lirica completamente libera sia dai legacci di una base visiva, sia dalle catene che sorreggono l'appartenenza ad un genere, ad un archetipo in qualche modo identificabile. L'abbandono cieco alla psiche e all'impulsività, canalizzati magistralmente attraverso tecnica e classe, sono elementi riscontrabili in ogni brano, dai più tetri ai più apparentemente allegri.

L'album si dispone a modalità di ascolto varie, con risultati e livelli di coinvolgimento differenti. E' scontato che una fruizione attenta e riflessiva sia il modo migliore per percepire appieno il ritmo vitale dell'opera nel suo complesso, ma anche una ricezione passiva, accompagnante i più semplici atti quotidiani, come una passeggiata o un viaggio in tram, può concederci gustosi frutti.

Ma proviamo ora ad addentrarci nei meandri dell'opera, stando però bene attenti a tracciare solo qualche contorno percettivo, fungibile solo da chiave d'accesso. Ci viene aperta la porta dal brano omonimo dell'album, "Day One", il quale riesce subito a ragguagliarci su ciò che ci aspetta, costituendo un sommario piuttosto esauriente dei pezzi a seguire. Gelo industriale e vibrazioni elettriche volutamente dirette a trafiggere, terrore palpabile che non lesina in malinconia. Si scorge sin d'ora un contenuto che troverà ampi spazi espositivi nel resto dell'album: lo scorrere del tempo secondo la percezione di Orbitalis, visto come mietitrice crudele di ogni istante bello e dolce che la vita riesce di tanto in tanto ad offrirci. L'ossessione di tale ineluttabilità, sbraitata da distorsioni disarmoniche frammiste a fonie gutturali, è già sufficiente a farci intendere la carica violenta e l'energia dell'opera, senza la necessità di raggiungere i toni del parossismo. Con "Anguish" entriamo ancor più nel profondo dell'ossessione data dall'incedere osceno del tempo, abbandonando qualsiasi tentativo di costruire una melodia e giungendo a risultati black ambient (evitando però le interminabili durate tipiche ti tale genere). "Ray of Dark" ci aiuta a prendere una boccata d'aria dal terrore, ma è solo una pausa fugace. A dispetto del titolo, secondo la mia personalissima linea interpretativa, questo è l'unico brano diurno dell'album, in quanto vedo l'intera opera come notturna, buia, illuminata a sprazzi solo da luci artificiali benchè variopinte. "Cybernetic Hitch" è una pausa nel tempo in un mare scuro puntellato di stelle, un dolce frammento di suoni sintetici che per un istante vuole guidarci nel mondo dei sogni. Ma veniamo immediatamente riportati alla realtà dalla marzialità di "Darkness Is Coming", nebbia che attutisce fischi industriali, atmosfera horror ricondotta al quotidiano. "Flies Will Eat Your Brain" è titolo eloquente, ma nella lontananza si vedono pallidi raggi...chissà. Cambiamo quindi stile espositivo con "Why Don't You Let Me Scream", dai toni quasi canzonatori, tali da condurre ad una tensione grottesca, altro elemento che si potrà notare in alcuni brani a seguire. La consapevolezza della caducità dell'avanzare viene sbeffeggiata da sonorità più tonde e ovattate. "Morbid Obsession" innalza il nuovo stile trovato nel brano precedente, accorpandovi una nuova aura dotata di una certa solennità. L'effetto viene ottenuto grazie all'eco di batteria, scelta poi impiegata in altri pezzi. "Lullaby" ritorna nella dimensione del sogno, ma questa volta la piacevolezza della fantasia è turbata da una sottile vena di irrequietudine che percorre tutto il brano. Le atmosfere pulite ad ogni modo ci regalano una tiepida carezza. "Wake Up Song" è un'opera che nasce tra gli alberi. A differenza di quanto potremmo aspettarci, il risveglio descritto appare delicato, la luce ci desta a piccoli baluginii, lasciandoci in un tepore morbido, circondati dalla natura. Atmosfera Big Beat da Prodigy con forti toni Industrial per "Shit! It's Late!", brano energico, il caffè del mattino che ci scuote e ci riporta alla realtà. E a questo punto entriamo nel vivo della malinconia soave dell'album. "What's Tomorrow (Part One)" crea un primo vortice verso il centro dell'arte di Orbitalis. Una vertiginosa melodia di piano diretta verso sonorità elettroniche e pressioni distorte. Pezzo indiscutibilmente blu.

"Can't Stop the Tape" ha un sapore da film horror fantascientifico, quindi nuovo ingresso all'immaginazione, in una dimensione onirica di fuga, ma senza drammaticità, sgorgante da un inseguimento operato da figure di cartone. I 43 secondi di "Open Source" ci fanno stare in ansia mentre percorriamo nel buio un cavo dell'alta tensione. Ritorno ai fischi industriali attutiti da una gelida nebbia con "Far Away, Somewhere", mentre una sirena melodica sembra voglia guidarci, ma al termine restiamo traditi e nel buio. Indubbiamente uno dei brani più paurosi dell'album. "Forsaken Is My Name" è un pezzo ambizioso in quanto, a differenza della stragrande maggioranza delle altre tracce, ha una durata piuttosto considerevole, sfiorando i nove minuti. Altro elemento che parrebbe complicarne la fruizione è la melodia ripetitiva che lo percorre in tutta la sua lunghezza. Ma, escludendo l'aspetto prettamente tecnico (il brano è estremamente complesso, come del resto molti altri presenti, ma non voglio portare l'analisi su questo piano, sarebbe inappropriato), il risultato finale è un'incantamento estatico da cui è difficile uscire. Paradossalmente, questo è uno dei brani che ho ascoltato più volte e che non riesce a stancarmi. Provate ad entrarci dentro e mi darete ragione. Ma passiamo oltre al brano successivo il quale, nonostante il titolo apparentemente ironico, "Have an Egg",  ha un certo carattere solenne, scadito da un accordo di piano ripetuto che ad un certo punto ci porta ad una sensazione di distacco, ma non traumatico, tale da farci galleggiare in uno spazio liquido, con una lenta gravità che ci separa pian piano dall'incedere iniziale. Riprendiamo poi il cammino con passo tragicomico in "Just a Moment, It'll Pass", lungo un sentiero che vuole solo farci riflettere. E' un piccolo spazio tutto per noi che ci viene concesso, un breve allontanamento dalla nostra quotidianità. A seguire una breve disarmonia dai toni sintetici, "The Shift", ci regala l'ultimo momento di spensieratezza prima di approdare a "Together Alone" e all'avvicinamento del panico, ai  giramenti di testa premonitori, all'angoscia della perdizione. Ma forse è possibile immaginare il proprio magnifico castello per salvarsi, "With Her", e sentire il desiderio di una passione che non si vuole lasciare assopire. Un inno gonfio di un sangue vivo:  non è sempre semplice farsi pugnalare a morte, per quanto profondo possa andare il coltello. "Follow the D" lascia i sogni alle spalle ma è un buon diavolo accattivante che ci strizza l'occhio, ci ammalia quel tanto da lasciarci avvolgere in turbinio estatico di onde curve e di diverso spessore, onde che da elettriche divengono d'acqua, la mer, in "-24.373974,-128.327406" (a voi lascio il piacere di scoprire cosa si nasconde dietro questo titolo), ricche di dolcezza e caratterizzate da andamenti discontinui, da ritmi di picchi e lunghezze assai diversi. In questo brano si entra nella subitaneità emotiva di Orbitalis, quasi una sorta di espressionismo astratto configurato in musica. E poi a seguire, "The Devil Inside the Time" ci riconduce all'immagine di un Crono crudele, nemico dell'umanità. I battiti di un cuore si mescolano al ritmo cadenzato di orologi, con un lento ma costante scostamento tra i due, segno di inconciliabilità. E' impossibile scendere a patti con un Dio che non concede remissioni, eppure a tre quarti del brano pare quasi di scorgere un tentativo di ribellione, probabilmente nella consapevolezza però di lottare contro i mulini a vento. "What's Tomorrow (Part Two)" si discosta notevolmente dal suo omonimo parte prima, in quanto le velocità divengono più vertiginose, abbandonando la riflessività precedente e migrando inevitabilmente verso la perdita del controllo.

Chiude l'album "Don't Look Inside Me (End Credits)", con un agghiacciante abbandono di ogni speranza. La sconfitta è giunta ed il tempo non può più ossessionare, rimane solo il vuoto e si rimane sbalorditi da quanto possa far male. Il livello di rumore frammisto a pianti si alza sempre di più, giungendo ad un oceano scuro di graffi e ferite, tali ormai da fondersi in un'unica massa distinguibile. Eppure al termine, nella regressione infantile dei lamenti, pare scorgersi una nuova dimensione di pace. Dopo essere fuggiti da tutto, comincia a coagularsi una nuova quiete, né bella né tragica, tale semplicemente da starsene lì e quanto meno, finalmente, ci fa sedere e riposare, ormai stremati.

La poetica di Orbitalis ha acquisito una maturità sorprendente in quest'album, e vi sono tematiche chiare e ben identificabili che percorrono "Day One" in ogni direzione. Non sottovalutate le potenzialità di quest'opera, mettete nel cassetto ogni vostro preconcetto di stile e generi di appartenenza ed immergetevi in un'esperienza sensoriale che riuscirà davvero a stregarvi, credetemi.

"Day One", quinto album di Orbitalis, uscito nel marzo del 2012, è scaricabile gratuitamente dal sito. Visitate il sito per scaricare questo e altri album dell'artista.

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