Qualcuno di voi si ricorda per caso del progetto L'Orchestre Noir?
Nello scorcio finale degli anni novanta, Tony Wakeford, colto da insane manie di grandezza, mise per un istante da parte i suoi leggendari Sol Invictus per raccogliere attorno a sé uno stuolo di musicisti francesi al fine di dare sfogo alle sue ambizioni di compositore classico. Questa esperienza tuttavia non si rivelò entusiasmante e finì per esaurirsi nell'arco di un paio di album: il pasticciato e claudicante "Cantos" e il già migliore "11", due opere che mettevono in crudele mostra i gravi limiti compositivi di Wakeford, che in seguito, saggiamente, decise di tornare a dedicarsi a tempo pieno ai suoi Sol Invictus e a riversare eventualmente in essi le sue tentazioni sinfoniche, raggiungendo sicuramente risultati migliori (ne è testimonianza lo splendido "In a Garden Green").
In verità, il pallino della musica classica non si è mai sradicato completamente dalla testa di Wakeford, a cui probabilmente il "rock" (in senso lato) e il formato canzone in genere, sono risultati nel tempo sempre più come un'armatura scomoda e limitante, e ne è una prova l'ultimo album solista "Not All of Me Will Die" dello scorso anno: un album pressoché strumentale, in bilico fra ambient, elettronica minimale e musica da camera.
Giungiamo quindi al 2010 con la pubblicazione di questo "What If...", uscito a nome Orchestra Noir, che non è la semplice riesumazione del progetto di cui si parlava in principio, ma di una nuova esperienza fondata questa volta su "basi londinesi", nata nel 2006 dalla collaborazione con il pianista Richard Moult, già collaboratore di Current 93; esperienza che già aveva dato come frutto l'EP "The Affordable Holmes" (ispirato alla colonna sonora di una serie televisiva che aveva come protagonista Sherlok Holmes!!), ma che solo adesso trova pieno compimento con un vero e proprio full-lenght.
Orfani ormai da troppi anni dei Sol Invictus ("The Devil's Steed" risale oramai al 2004), ci accingiamo così all'ascolto di questo ennesimo parto del prolifico Wakeford, che negli ultimi anni ha preferito concentrarsi sulla sua carriera solista e su progetti estemporanei. Parte in sordina "The House on the Hill" e subito un angoscioso pensiero m'infesta: "Ma perché ci sono ricascato? Ma che diavolo l'ho comprato a fare? Forse non lo sapevo?". Ed in effetti le prime note profuse confermano tutti i pregiudizi negativi che potevamo nutrire in merito ad un progetto del genere: melodie elementari, arrangiamenti puerili, qua e là perfino qualche armonia che non quadra. Il tutto sentito già mille volte. Insomma, l'ennesimo impianto scricchiolante allestito dall'ostinato e cocciuto Wakeford, che privato della sua chitarra e del suo folk apocalittico (evidentemente l'unica cosa che gli riesce bene), finisce per ricadere nell'infausta categoria del musicista mediocre.
Le cose migliorano già a partire dalla successiva "Bedlam", aperta dal montare tragico del pianoforte di Moult e squarciata dal canto disperato di Wakeford (in pari modo epico e lacrimevole, fragile ed indistruttibile, sofferto e distaccato): un binomio che costituirà il filo conduttore di un album che, nei suoi tre quarti d'ora di durata, saprà comunque cambiare umori e paesaggi, passare dal sole tiepido del mattino al rosso infuocato del crespuscolo.
Se l'intento rimane il medesimo che ispirò la genesi de L'Orchestre Noir (ossia quello di cogliere e sviluppare un'espressione artistica "pura", totalmente affrancata dal "contaminato" mondo moderno), delle sostanziali differenze sono comunque riscontrabili in questo "What If...", che ci presenta un artista più maturo e più consapevole di sé. Perché "What If..." rappresenta l'ulteriore passo di un personale ed unico percorso artistico partito da lontano (il punk dei Crisis) e che sembra momentaneamente soffermarsi su una strana forma di musica da camera apocalittica che, passo dopo passo, Wakeford è riuscito negli anni ad affinare: l'unica dimensione, pare, in cui il Nostro menestrello della Fine riesca oggi a sentirsi a proprio agio.
Rispetto al progetto francese, Orchestra Noir si fa così portatrice di una visione più intima e personale, totalmente scevra dai dettami di ordine "ideologico" che avevano animato i due lavori di fine anni novanta. Spurgato dal sinfonismo sopra le righe, dagli aspri toni inquisitori e dalla cupezza marziale che animavano i suoi pseudo-predecessori, "What If..." poggia principalmente le sue basi sul malinconico passeggiare del pianoforte di Moult (anche al mellotron e ai sintetizzatori), e sulle decorazioni (anche dissonanti) di un ensemble di archi e fiati (da segnalare l'ottima prestazione all'oboe e al corno inglese di Mark Baigent, fra i primi ad aderire al progetto, e terzo firmatario dei brani).
Non si rinuncia nemmeno agli eterei gorgheggi della folk-singer Autumn Grieve (già collaboratrice di Wakeford), né alle ruvide improvvisazioni jazz di Alexandria Lawrence (che canta nella prima parte di "A Second Before"), poiché in "What If..." convergono tutte le pulsioni artistiche del Wakeford degli ultimi dieci anni (folk, cantautorato, musica da camera, ambient, elettronica, jazz, avanguardia ecc.), ovviamente modellate in un flusso sonoro coerente e pervaso dall'indissolubile poetica della Fine che da sempre contraddistingue Wakeford, che di suo ci mette la consueta passione, la consueta onestà, la consueta integrità, oltre che il basso, le manipolazioni elettroniche e la voce. Molta voce, cosicché "What If..." non è nemmeno un album strumentale come potevamo aspettarci, bensì una raccolta di bucoliche ballate che si sviluppano in forma libera, in un continuo affastellarsi di immagini, ricordi, suoni, visioni evocanti un'Arcadia persa nella notte dei tempi che assume le sembianze di una quieta, uggiosa, ventilata campagna inglese.
Andando ad analizzare l'album per singole tracce, non si può che convenire che il risultato sia in definitiva un qualcosa di discontinuo, altanelante, dove l'ispirazione va e viene, ma soprattutto dove i momenti veramente convincenti scarseggiano. Se si guarda l'insieme, invece, possiamo dare un giudizio senz'altro più generoso: anche in questa circostanza, Wakeford si dimostra un appassionato pittore che a dense pennellate, trascurando i dettagli, ritrae fedelmente i foschi paesaggi che tormentano la sua anima: un'anima che mano a mano che procede nel suo viaggio nel mondo terreno, sembra già volersi congiungere con l'Aldilà, abbandonandosi alla nostalgia di un passato, di un'innocenza che mai più ritorneranno, come l'imperatore Adriano della Yourcenar, che, indugiando in punto di morte con il proprio sguardo sulle "rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più", cerca di entrare nella morte a occhi aperti...
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