Spesso mi capita di fare un giro su Ondarock (o sullo stesso Debaser) per leggere qualche recensione: con altrettanta frequenza mi trovo davanti commenti positivi, voti esagerati, lodi sperticate a nuovi artisti, che mi incuriosiscono non poco. Così vado a scovare questi presunti talenti su Youtube: nel 90% dei casi si tratta di piacevoli ascolti, che però mi scivolano addosso, mi attraversano da un'orecchia all'altra con incredibile disinvoltura. Ma nel 10% rimango colpito, approfondisco, ascolto sempre di più quella musica e mi rendo conto di aver trovato qualcosa per cui vale la pena lasciare un posto libero nel proprio cuore.

E' il caso dell'isrealiano Oren Lavie, valido discepolo di Nick Drake, ma non per questo suo clone: infatti Oren, pur avendo diverse caratteritische comuni all'autore di Pink Moon (fra cui la voce, che, sebbene sia più profonda rispetto a quella di Nick, la ricorda parecchio), ha uno stile compositivo molto personale, e, soprattutto, incredibilmente maturo: il suo "The Opposite Side of the Sea" è, infatti, una raccolta di 11 perle praticamente perfette, una sorta di "Bryter Layter" inciso 40 anni dopo, in cui ti è difficile, quasi impossibile individuare una nota superflua o, quanto meno, fuori posto.

Si parte con il singolo "Her Morning Elegance", un pop-jazz la cui melodia è dettata da un caldo vibrafono su un tappeto di piano elettrico. Il pezzo è orecchiabile, ma delicato, avvolgente e fortemente emozionante: un potenziale evergreen, insomma. Le successive "The Man Who Isn't There" e "The Opposite Side of the Sea" fanno leva su strutture più sofisticate: la prima parte con un tono dimesso, il canto malinconico accompagnato da un tenero pianoforte; ma presto gli archi tessono trame complesse e abbelliscono la melodia vocale. La seconda è un pop orchestrale con una formidabile sequenza armonica che si regge su un raffinato arrangiamento di archi. La voce calda, intima, gli arpeggi dolci e puliti della chitarra, gli intarsi di violini e violoncelli toccano il cuore, lo fanno sussultare: questa è musica da ascoltare con cautela e parsimonia: con l'uso prolungato il suo effetto potrebbe svanire.

Se "Locked in a Room" appare quasi essenziale, con i suoi arpeggi bucolici, rispetto ai due pezzi precedenti, "Ruby Rises" riacquista la pomposità: un'introduzione che lascia spazio persino al flauto, una strofa dai toni placidi ma con un sapore epico, un ritornello-ninnananna con tanto di rintocchi di vibrafono. E' il pezzo in assoluto più complesso del lotto. Ma la gemma è incastonata nel perfetto centro dell'album: "A Dream Within A Dream" è un folk jazz di rara tristezza\bellezza. La voce è rassegnata, sussurante, Drakiana; la chitarra ti trasporta in una foresta innevata e ti offre subito calore. Il tuo cuore viene congelato e poi immediatamente riscaldato: in sostanza un meraviglioso ossimoro in musica.

"Trouble Don't Ryhme", con in sottofondo il rumore della pioggia, si avvale di una melodia bambinesca e memorabile e di un ritornello semplice e struggente. "A Short Goodbye" è malinconica, serena, leggermente ritmata da minimali percussioni: niente da fare, Oren Lavie al suo primo lavoro ha già un marchio di fabbrica. E non è poco. Altro vertice è "Don't Let Your Hair Grow Too Long": un'intro sofferta di piano per un delicato e mesto jazz che lascia il segno (opinione personale: un bell'assolo di sax non avrebbe di certo sfigurato in questo pezzo). La serafica "Blue Smile" rende appieno l'atmosfera autunnale propria dell'album. Con la traccia nascosta "A Quarter Past Wonderful", un fantastico swing-jazz che ricorda la "Man in a Shed" di Nick Drake, finisce questo magico viaggio: è meglio, dopotutto c'era il rischio di fare overdose di meraviglia.

Dato lo scarso successo di quest'album, che, pubblicato per la prima volta nel 2007, ha venduto solo 20 copie in 2 anni, auguro ad Oren Lavie di non fare la stessa fine del cantautore nato a Rangoon, quello che cantava di alberi da frutto e cose dietro al sole: o meglio, le mie orecchie sperano vivamente in un nuovo "Pink Moon", ma il mio cuore non vuole che un altro grande artista venga ucciso dal Tryptizol. Ne ha fatte già abbastanza di vittime, quello.

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