Dopo un capolavoro dalle immani proporzioni come “Nachtliche Junger” cosa aspettarsi da una band rivelazione come gli Orplid, giunta al suo terzo full-lenght?

Generalmente il terzo album costituisce il passo della consacrazione e “Sterbender Satyr” conferma nel complesso le aspettative: non di certo all'altezza del fenomenale predecessore, ci consegna tuttavia una band in splendida forma, profondamente ispirata, fermamente focalizzata nella sua visione artistica. Una band, potremmo aggiungere, alla ricerca dell'immortalità artistica, tradotta di una evoluzione stilistica che sia in grado di aprire a nuovi margini di sperimentazione, senza ledere un'identità ben definita ed indissolubile, patrimonio che sarebbe stupido e deleterio depauperare.

Questo lavoro del 2006 mantiene intatte quelle che sono le caratteristiche tipiche del sound tipico del duo tedesco: gli Orplid continuano a battere le strade di un romantico ed appassionato neo-folk cantato in lingua madre. Ma laddove il perpetuarsi delle formula, seppur vincente, potrebbe stancare i palati più esigenti, troviamo i Nostri alle prese con manovre che portano ad un impiego più massiccio di macchine e sintetizzatori, a scapito della componente più propriamente acustica, che comunque rimane determinante nell'economia complessiva del suono.

Se l'accoppiata iniziale, “Der Letzte Ikaride”/“Auf deine Lider senk ich Schlummer” conferma (in piccolo, dato che si tratta di due brani assai brevi) quanto di buono servito dal formidabile predecessore, un significativo cambio di rotta viene rinvenuto già nei pezzi immediatamente successivi: “Die Seherin”, cantata da una “diamandizzata” Sandra Fink, e “Parzivals Traum”, suggestiva parentesi ambientale, conducono direttamente al di là dei confini della canonica ballata folk da sempre patrocinata dai Nostri. Un maggiore utilizzo dell'elettronica sembra piuttosto essere la carta giocata a questo girone da Uwe Nolte e Frank Machau.

Ce lo conferma il vero high-light dell'album, “Amils Abendgebet”: il brano, pur non rinunciando ai barocchismi di una chitarra acustica ed al canto desolante di Machau, è scandita nel suo procedere da truci beat industriali e si adagia su tappeti sonori neri come la pece. Il neo-folk degli Orplid perde in parte la monumentalità che fino a ieri lo aveva contraddistinto e decide di sprofondare ulteriormente nel cuore della notte, calzare la veste di suoni sporchi e pesanti come il piombo, indossare un'armatura ancora più oscura ed aspra che in passato, strisciare nel fango di torbide emozioni, visioni decadenti, sofferte constatazioni.

Non si tratta certo di un passo indietro, anzi, è qui che si evidenzia la classe e l'ispirazione di un ensemble che, pur adoperandosi in soluzioni di certo non innovative, è in grado di smuovere l'emotività dell'ascoltatore, astraendolo, disorientandolo, trascinandolo in luoghi misteriosi ed irreali, come sospeso in una dimensione fatta di tenebre, fantasmi, emozioni, epoche remote ed incontaminate.

Quando i medesimi elementi vengono rinvenuti nella successiva, altrettanto emozionante, “Erster Frost”, abbiamo finalmente chiaro il sentiero impervio che i due hanno deciso di intraprendere: quello di un folk industriale, arcigno quanto etereo, che sa incastonare alla perfezione la strumentazione acustica nei gangli di una dimensione elettronica dal fosco incedere rituale. Una scelta che peserà sul futuro della band, che successivamente preferirà sbilanciarsi verso un orizzonte “meccanizzato” e più prepotentemente marziale, perdendo tuttavia per la strada la magia di un folk ancestrale che ha saputo brillare così vividamente nei primi tre album.

Lo scorcio finale dell'opera già inizia a spianare la via a questo tipo di evoluzione, inanellando una serie di brani dalle forti connotazioni sinfoniche, già orfani della chitarra acustica, ma ancora capaci di stregare per il fascino evocativo che il fluttuare desolante dei sintetizzatori suscita cozzando con i sofferti recitati in lingua tedesca (innumerevoli i rimandi alla letteratura romantica di fine ottocento).

La serie viene interrotta solamente da una insolita parentesi di “spensieratezza” (vocabolo da afferrare necessariamente con le pinze!): “Sang am Abend”, nei suoi intrecci di tastiere sognati, ritmiche incalzanti e fraseggi di chitarra, sembra ricongiungersi a quel filone della tradizione dark “scanzonata” che fa certamente capo a band come The Cure e Mission.

Il resto, come si suol dire, è solennità, pathos, dramma: tutto quello che ci si può e ci si deve attendere da un album degli Orplid. E come ogni album degli Orplid, “Sterbender Satyr” è un'avvincente escursione nei sentieri dell'anima, attraverso le passioni più nascoste ed invincibili dell'uomo, fra luci (poche) ed ombre (molte), come solo i bravi cantori Nolte e Machau sanno (e hanno saputo) fare.

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