Pochi mesi prima della sua tragica morte, avvenuta il 10 dicembre 1967 ad appena ventisei anni, Redding aveva inciso tonnellate di canzoni, le quali trovarono posto in album postumi più o meno riusciti. Una manciata di questi pezzi, probabilmente i più carismatici, furono pubblicati su questo disco, in assoluto uno dei migliori della sua prolifica (seppur molto breve) carriera. Un disco che davvero rasenta (se non raggiunge) la perfezione formale e stilistica.

L’aspetto che colpisce maggiormente l’ascoltatore è senza dubbio la grande varietà del materiale proposto; si passa infatti da ballate levigate e di grande effetto come ad esempio la splendida canzone che da il titolo al disco oppure l’intensa “The Glory Of Love”, a brani in puro stile Barrelhouse blues di New Orleans come nel classico “The Huckle Buck”, dove Redding dimostra di aver assimilato alla perfezione e fatto sua la lezione di nomi illustri del blues come Champion Jack Dupree o Roosevelt Sykes.

Un Redding quindi decisamente più maturo rispetto agli esordi, non solo nella forma (il suo modo di cantare teso ed angosciato tocca qui uno dei suoi vertici assoluti), ma anche nei contenuti; il duetto con Carla Thomas “Tramp” è sicuramente uno degli episodi maggiormente riusciti del disco, con l’alternarsi delle due splendide voci imperniate su contrappunti melodici di grande impatto. Davvero notevole. Non si capisce onestamente il motivo della presenza del classico “Ole Man Trouble”, peraltro molto bello, già presente in “Otis Blue” (1965) nella stessa identica versione qui riproposta; un riempitivo davvero inutile considerata l’enorme mole di registrazioni ancora rimaste inedite, basti pensare che dopo la sua morte, in appena 2 anni (1968 – 1970), furono compilati ben quattro dischi postumi di materiale assolutamente inedito.

Il feel con cui Redding interpreta ogni brano arriva e colpisce diritti al cuore, “Don’t Mess With Cupid”, “I’m Coming Home”, “Open The Door” trasudano puro Rhythm & Blues ed il lavoro del chitarrista Steve Cropper è in questo caso più prezioso che mai, con le linee melodiche pulite e cristalline della sua Fender Telecaster intenta a tessere un tappeto sonoro molto efficace come base alle prodigiose interpretazioni vocali di un Otis, come già ampiamente detto, in ottima forma. Anche i fiati, da sempre uno dei punti forti dei suoi album, paiono qui ancora più incisivi ed efficaci del solito.

Tra gli echi dei solchi di un disco così lirico ed ispirato, sovviene un rammarico… il rammarico di chi avrebbe voluto ascoltare altre registrazioni del genere, così intrise di passione e talento musicale, che a distanza di quaranta anni suonano più fresche ed attuali di qualsiasi cosa offra il panorama musicale odierno; ce ne avrebbe potute regalare molte altre di perle così ma, senza voler fare dell’inutile quanto risaputa retorica, ci consola il fatto che Otis continui a vivere grazie a dischi come questo e grazie anche (purtroppo o per fortuna) al susseguirsi di innumerevoli operazioni commerciali che da sempre seguono la scomparsa di un artista di tale portata. C’est la vie…

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