Finalmente, dopo otto anni di assenza dal mercato discografico, il chitarrista ed anima del gruppo Hughie Thomasson nel 1994 rimette insieme i cocci di questa formazione southern rock della Florida, trovando tre compagni nuovi di zecca e qualche illustre collega ed amico qua e là disponibile per un’ospitata (Gary Rossington e Billy Powell dei Lynyrd Skynyrd, per esempio). A investire su questo ritorno, sparite all’orizzonte le multinazionali del disco che fino agli anni ottanta avevano investito sulla band, è ora l’attivissimo Mike Varney, onnipresente scopritore e spingitore di bravi chitarristi di ogni genere, dal metal in giù. Il budget è limitato (si vede anche la sciatta foto di copertina, seguita all’interno dell’album da un lettering tipo standard Excel…) perché Varney non è poi un miliardario, ma insomma grazie a lui i Fuorilegge riescono ad interrompere un lungo digiuno discografico, ricostituendosi in quartetto a due chitarre e pubblicando questo discarello a basso budget e conseguente limitata diffusione. Peccato… è uno dei migliori della loro cinquantennale carriera!

Il tour de force (sette minuti, e assoli di chitarra come se grandinasse), messo in apertura nonché ad intitolare il lavoro, è una tipica canzone di Thomasson nella sua tonalità favorita di Mi minore: un 30% di già sentito sui dischi precedenti però bei cori, estrema decisione, le chitarre a lavorare piene di grinta e pienezza armonica.

Nella svelta “Let the Fingers Do the Talkin’” il compiantissimo Thomasson, brutto per quanto bravo, lascia andare il braccio, come si direbbe in gergo tennistico. Cioè libera le dita, come d’altronde il titolo del pezzo in qualche modo avverte, ed è un gran bell’andare… non per niente Hughie veniva soprannominato Flame, fiamma, da colleghi e sostenitori, appunto per quella capacità di produrre fiammate di note, gragnuole di serratissime scale sulla tastiera, alla maniera del country più virtuoso ma con l’amplificazione fragorosa e il pieno mordente del rock.

Il nuovo, ennesimo collega di Thomasson alla chitarra per quest’episodio della discografia Outlaws, tal Chris Hicks, è un tipo anch’esso bello sveglio sullo strumento… Lo si può evincere sia su “Macon Blues” che su “The Wheel”, nelle quali sfoggia puro uno stile vocale ben roco, legato a filo doppio al rhythm & blues. Si avverte dappertutto un’estrema energia e voglia, anche se il repertorio scorre un po’ scolastico e poco memorabile, nel senso che i pezzi si gustano parecchio ma subito si dimenticano non essendo dotati di melodie o giri armonici, arrangiamenti o ritmi un minimo sorprendenti, o quantomeno irresistibili.

Promozione piena dunque per questa isolatissima uscita Outlaws degli anni novanta. Sono quattro stelle tonde, ma siamo nel beneamato lustro del trionfo di quelli in camicia di flanella e il rock anni settanta di “Diablo Canjon” è fuori moda senza ancora essere diventato “classico”, come ora invece succede.

Nessuno o quasi perciò se lo fila, e il gruppo è costretto a disperdersi nuovamente, anche perché Thomasson decide di accettare senz’altro l’offerta dei redivivi Lynyrd Skynyrd ed entra in quella celebre formazione a sostituire il dimissionario Ed King, uno svelto colla Stratocaster come e quanto lui. Ci resterà quasi un decennio, fino ad averne le palle piene di eseguire ogni sera lo zompettante, immortale riff di “Sweet Home Alabama” e a tornare a pensare ai suoi Outlaws… ma se ne continua a parlare un’altra volta.

Carico i commenti...  con calma