Imperano gli anni ottanta ed anche i “sudisti” Outlaws da Tampa, Florida, in questa loro settima uscita del 1982 cedono sensibilmente alla tendenza hard&heavy che a quel tempo pervade il rock, come reazione al fatto di esser stato messo alle strette prima dalla Disco, coi suoi falsetti e la sua cassa in quattro, e poi dalla New Wave, coi suoi sintetizzatori e le sue ritmiche rigide.

Ed allora è uno dei chitarristi in formazione, il più recente acquisto Freddie Salem, a trainare i compagni verso l’indurimento (con relativa, discreta spersonalizzazione) del suono. D’altronde sin dal suo arrivo, tre anni e tre dischi prima, Salem era apparso subito come il più “pesante” e caciarone della congrega... Qui il suo ruolo all’interno degli Outlaws appare assai cresciuto, non secondariamente per la triste ma probabilmente inevitabile cacciata di uno dei tre chitarristi/cantanti/compositori/fondatori vale a dire Billy Jones, per i soliti motivi di eccessiva indulgenza verso droghe ed alcool e relativa inaffidabilità musicale.

La storia di Billy è emblematica e mi ha sempre emozionato: persona concentrata ed efficiente, musicista precoce e talentuoso, viene contattato ancor diciottenne da un prestigioso istituto di insegnamento musicale ma lui vi rinuncia, optando per la continuazione degli studi all’università. Mentre che procede verso la laurea a pieni voti, viene contagiato dalla febbre del rock ed accetta la chiamata del fondatore degli Outlaws Hughie Thomasson per arricchire il neonato gruppo con le sue… tastiere!

Solo che viene beccato un giorno colla chitarra addosso, mentre che spiega ai compagni per filo e per segno come armonizzare una parte solista, lui che d’altronde è musicalità fatta persona. Lo fa in maniera così precisa e smagliante (non l’avevano mai visto con una chitarra addosso!) che va a finire che gli sequestrano organo e pianoforte forzandolo a diventare seconda chitarra solista nella band, ignorando le molte sue riserve sul fatto che non si vedesse pronto con la chitarra, strumento sul quale si riteneva non ferrato abbastanza. Così va a finire che gli Outlaws si strutturano ad armata di chitarre, ben tre come i Lynyrd Skynyrd; tre solisti a dividersi i compiti con uno che parte in assolo e gli altri due che lo spalleggiano oppure parti armonizzate, a due o talvolta anche a tre chitarre…

Ma qui su “Los Hombres Malo”, dopo sette anni e sette dischi, tale magia se n’è per buona parte andata: la banda si ritrova contratta a quartetto, essendosene andato anche uno dei due batteristi.

L’album non è affatto malaccio, caratterizzato in primis dalla meravigliosa impennata melodica di “Goodbye”, un vero ed assoluto inno rock grazie all’irresistibile, agganciante, perforante, memorabilissimo ritornello. In un mondo ben giusto una canzone così dovrebbe avere un ruolo di valida, e vivaddio diversificante, alternativa alle mega presenzialiste, prezzemolose, ultra sputtanate “We Are the Champions” dei Queen e la Pucciniana “Nessun Dorma”. Così almeno un po’ di varietà si potrebbe averla, ma tant’è…

L’iniziale “Don’t Stop” è una vera dichiarazione d’intenti: pare di sentire i Judas Priest, con quel riff di chitarra tanto anonimo quanto cattivissimo, quelle sonorità spinte al massimo e del tutto lontane dalla pregiata amalgama di blues, country, soul, Beatles, Stones che caratterizza il miglior southern rock; ed in aggiunta, la voce di Salem la si esibisce alla massima capacità urlatoria possibile (ma Rob Halford è un’altra cosa, ovvio). Acceleratore calzato a fine corsa anche per la successiva “Foxtail Lily”, a testimonianza di voler far partire l’album cogli episodi più heavy, sì da attirare attenzione anche in area metallara.

La maggioranza dei pezzi resta però più rotonda ed “appoggiata”, col deciso riaffiorare dell’originale ispirazione southern. Mi riferisco a “Rebel Girl”, a “Back from Eternity” ed al finale “All Roads”, tutti cantati da Thomasson. “Won’t Come Out of the Rain” introduce invece al microfono il nuovo bassista Rick Cua, il quale dà comunque il suo meglio sull’altra sua composizione “Easy Does It”, dal bell’inciso melodico.

Il povero Billy Jones la prese molto male, la cacciata dagli Outlaws... peggio non avrebbe potuto. Risolte in qualche modo le sue problematiche con droghe e affini, col procedere degli anni ottanta aveva alfine abbracciato l’attività di insegnante di musica, mestiere per il quale era pienamente abilitato grazie a diploma e laurea. Ma delusione e depressione hanno continuato a scavargli l’animo, finché nel 1995 si è strappato via da questo mondo, sparandosi un proiettile nella tempia. La sua facciotta tondissima e paffuta, incorniciata dai lunghissimi capelli ordinatamente ondulati, resa ancor più personale e buffa da quella specie di baffetti intorcinati alla Charles Bronson, mi suscita sempre comprensione e cordoglio.

E ammirazione: grazie ancora per la tua musica e la tua chitarra Billy, eroe caduto del rock sudista.

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