Dannati alternativi italiani. E io che mi ero andato a guardare il video di “Tokoloshi”: bel groove, bei tamburi, bella voce animalesca, noise sì, ma non troppo. Vai a pensare te che era l'unico brano orecchiabile.

Mix di generi accattivante, critica acclamante, copertina incuriosente fra il naif e l'inquietante, insomma: tutto mi faceva pensare/presagire/sperare che si trattasse dell'album diversamente simpatico del panorama alternativo tricolore, cool, pompato, ben prodotto, un gioiellino che potesse incasellarsi alla perfezione nel mio cammino musicale volto ad una vecchiaia frizzante e non fatta solo di estremismi e desiderio di Morte. Vai a pensare te che “Abisso” era l'ennesimo album disturbante ed all'orecchio fastidioso che mi toccasse ascoltare. (Come direbbero i National: “Trouble Will Find Me”!) Pensate poi: fatto dal batterista dei Bachi da Pietra e dalla rastissima chitarrista tutto-fare Stefania Pedretti, una che dietro al microfono sa ben camuffare la sua appartenenza al gentil sesso.

Già: mi aspettavo gorgheggi e al peggio declamazioni inverosimili in stile Diamanda Galàs, ed invece growl bestiali, grida squarcia-tonsille, chitarre slabbrate come secchiate d'acido corrosivo sulle orecchie. Gli OvO non sono gli ammiccanti indie-ritual-experimental-dark-avant-noise-rocker che m'aspettavo. O negozianti, non dovevate esporre “Abisso” accanto ai cd di Massimo Volume e Santo Niente (e nemmeno fra Zu ed Ufomammut, potremmo aggiungere), state ingannando gli acquirenti! Piuttosto buttateli nello scatolone vicino alla porta del cesso insieme ai vecchi dischi dei Khanate o dei Today Is The Day (mi dispiace dirlo, ma il primo termine di paragone che mi viene in mente è proprio quel “Sadness Will Prevail” della formazione di Nashville).

Ripartiamo dunque da capo: gli OvO, dopo una gavetta più che decennale, ormai giunti al loro ennesimo album, e già approdati con il precedente “Cor Cordium” alla Supernatural Cat (etichetta che ha permesso loro di ottenere una indubbia maggiore visibilità), giungono con “Abisso” (2013) al fatidico e meritato momento della consacrazione. Tutto infatti puzza di consacrazione in “Abisso”, a partire dalla scelta di affidarsi, in sede di produzione, ad un personaggio di grido come Favero (Teatro degli Orrori), per arrivare al dispiegamento di ospitoni reclutati per l'occasione, niente meno che Alan Dubin, direttamente dai disciolti Khanate, e miss Carla Bozulich-Evangelista, la cui ugola lamentevole fa il bel paio con quella al vetriolo della Pedretti in “Fly Little Demon”. E' quindi consacrazione, anche se di per sé questo non vuol dir nulla, dato che è noto come la consacrazione spesso giunga in ritardo e non necessariamente finisca per coincidere con l'apice creativo di un artista.

Se “Abisso” è veramente il lavoro migliore del duo, o semplicemente un passo (falso) più lungo della gamba, questo ce lo diranno i fan estimatori dagli OvO che hanno ascoltato attentamente tutta la loro assai nutrita discografia. Quello che posso dire io è che “Abisso” nei suoi cinquantun minuti di durata ci consegna una band matura e consapevole dei propri mezzi, e ci serve più di un colpo vincente ad innalzare una valutazione già di per sé più che buona. Qualcuno potrà anche dire che il sound si è in parte normalizzato, che quel modus operandi fatto di “suono ovunque, senza compromessi, e con qualsiasi cosa mi ritrovi per le mani” che aveva animato il gruppo alle sue origini si sia perso per strada, insieme alla genuinità ed alla recrudescenza dei vecchi Ovo, e in questo hanno sicuramente contato l'accrescimento dei mezzi a disposizione, una veste meglio tagliata e stirata (evidentemente destinata ad un pubblico più ampio) e il posizionamento dietro al mixer di quel volpone di Favero (che già aveva avuto modo di collaborare con Dorella in “Quintale”, contribuendo alla svolta heavy/stoner che i Bachi hanno intrapreso con il loro acclamato ultimo lavoro).

Ma come in ogni fase di passaggio o maturazione che sia (ed è innegabile che gli OvO siano in qualche modo cresciuti) se qualcosa si perde, qualcos'altro si guadagna di sicuro. E in “Abisso” si ottiene la quadratura del cerchio, il raggiungimento di un difficile punto di equilibrio nel quale i due musicisti riescono a conferire “armonia” ad un insieme di elementi distanti, che risultano nel loro susseguirsi ben amalgamati e disposti nella corretta successione (sebbene l'impressione iniziale sia quella di un'anarchia di suoni e strumenti maltrattati, con qualche banalità disseminata qua e là). Ne giova l'ascolto: “Abisso” non brilla per il singolo episodio, bensì per la sensazione d'insieme che emana nel suo complesso, per il modo in cui le ambientazioni, i vuoti e i pieni confluiscono gli uni negli altri. Ed è quindi un tripudio di micro-schegge schizoidi (“I Cannibali”, “Pandemonio”) che esplodono punteggiando estenuanti assenze fatte di scricchiolii (“A Dream Within a Dream”), excursus più ragionati dall'ipnotico incedere (“Ab Uno”) ed autentici incubi esoterici (la già citata “Fly Little Demon” con gli Evangelista), in un franar di suoni che evocano continuamente immagini, sensazioni e concetti quali baratro-destabilizzazione-apocalisse-caos-disagio-improvvisazione-deformità-lacerazione.

“Abisso” è dunque, come suggerisce il titolo, la musicazione di una autentica discesa negli Inferi, il midollo spinale che conduce dalla quiete della superficie alla celebrazione turbolenta di una messa sotterranea di suoni distorti e disarticolati, a volte liquidi, altrove aridi fino alla polvere. La prorompente verve tribale del granitico e versatile Dorella (che qui più che altrove ho trovato calato nella parte) e il field-recording pan-naturalistico della Pedretti, aiutata per l'occasione da Rico Gamondi (Uochi Toki), prima ancora che i fugaci e tanto sbandierati inserti di musica etnica mutuati direttamente dal continente africano (poca cosa se si guarda all'economia del tutto), imprimono un'accelerazione verso quel nucleo primitivo, arcaico, ancestrale, ove primordiali e primigenie energie si scontrano con gran fracasso: luoghi metafisici ed universali che da sempre costituiscono la destinazione ultima del progetto, con un risultato finale che rende la musica degli OvO (guarda caso) espressione metaforica, specchio ed al tempo stesso deformazione di un simposio di fratture insanabili e lacerazioni (dell'Io?) tipiche dei tempacci nostri.

E potremmo continuare a dir cazzate all'infinito: la recensione di un lavoro come “Abisso” si presta a prendere la forma di un elenco scriteriato di aggettivi o di espressioni superlative, o dei generi musicali più disparati; ed è la tipica recensione che si apre o conclude con il massimo punteggio o con un più rassicurante SV. Ed alla fine non si capisce mai niente. In linea con il mio proposito del 2014 di essere più sintetico possibile, la faccio basta e vi dico: merita, se non altro per quel tuffo al cuore che procura l'udir nuovamente la voce di Dubin in “A Dream Within a Dream”, che riporta nelle nostre stanze un po' d'aria di Khanate. E in tutta onestà quest'aria ci mancava.

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