"I like bands making punk rock music" ha confessato candidamente Mike Kinsella, rispondendo ad una delle mie domande in un inglese al limite dell'imbarazzante. E' successo durante un'intervista fatta da me, con lo stile DeBaseriano delle 5 domande, che, confesso, non ho mai avuto il coraggio di pubblicare. Era una tiepida sarata di inizio estate del giugno 2007 ed io e Mike eravamo seduti su un muretto di Saint Feliu, un piccolo paesino della Costa Brava, di fronte a Casa Irla, un circolo culturale dove di lì a poco avrebbe suonato per una trentina di affezionati.

Ho seguito Mike per tre serate del suo tour europeo e sono rimasto stupito della semplicità e dalla disponibilità di un personaggio per lo più sconosciuto al pubblico italiano: batterista dei Joan of Arc (col fratello Tim ed il cugino Nate) e degli Owls, batterista e vocalist dei Cap'n Jazz, bassista e vocalist nel tanto breve quanto fortunato progetto "minore" denominato American Football e qualcos'altro ancora. Dal 2001 Mike ha espresso, a mio parere, tutto il suo talento nella one-man-band che porta il nome di Owen. Fra le mie cinque domande dimenticai di chiedergli se per caso gli piacessero anche i Take That. Credo proprio di no.

"At Home With Owen" è il suo ultimo album, pubblicato nel 2006 dall'etichetta a conduzione familiare, la Polyvivyl Records. E non ha nulla di punk. Nè dei Take That, per fortuna. Otto canzoni racchiuse in un cofanetto dalla copertina bucolica ed allo stesso tempo inquietante. Otto pezzi in cui  tutti gli strumenti sono suonati da lui, a conferma dell'ecletticità di questo ragazzo che, tra l'altro, ha dei tatuaggi sulle falangi della mano sinistra che non si possono vedere.

Mike diluisce in un folk melodico, elegante e varipinto i pensieri e le storie di una vita che lo ha visto crescere fra parenti musicisti da emulare, bar affollati di Chicago, buoni libri ("The Sad Waltzes of Pietro Crespi" fa riferimento a Cent'anni di Solitudine di Gabriel García Márquez), punk music e chitarre acustiche. Take That no. Fingerpicking, slap ed accordature aperte sono, in questo caso, il denominatore comune di un repertorio affascinate ed originale, condito da una voce per nulla eccelsa, ma sfruttata per quello che è e per quello che può esprimere. Senza forzature. Senza compiacimenti. Mike, quando suona, sorride. Ho sempre apprezzato chi sa esprimere gioia nel fare un mestiere che ama. Soprattutto quegli artisti che non sono nella condizione di piegare la propria opera alle logiche commerciali. E non ne hanno alcuna volontà. Il giudizio della gente poi è ovviamente una questione di gusti. A me, per esempio, Owen ha restituito la passione nel suonare la mia Gibson. In America, invece, le ragazzine impazziscono ed affollano i suoi concerti. Lui ormai è sposato e si sente quasi un vecchio. Me lo ha ripetuto spesso, nonostante abbia appena passato la trentina. Pare che non apprezzi le orde di sbarbine loquaci ed affamate di autografi e non solo. E che non ne approfitterà.

Ricordo serate speciali in sua compagnia, durante quell'estate passata ad inseguirlo pigramente per l'Europa, mescolando un breve momento di ferie alla sua musica. Come quando mi ha spiegato, chitarra alla mano, in un angolo del palco, a spettacolo terminato, alcuni passaggi a me oscuri di una delle sue canzoni più famose, "Breaking Away". Ricordo anche che, seppure lontana migliaia di chilometri, anche Trell era lì con me. A condividere con sms e telefonate il mio buffo ed infantile entusiasmo per un incontro che mai avrei immaginato così piacevole. Fu anche per quello che un giorno le corde della mia chitarra vibrarono per lei, sulle note di Owen.

Ciao Malacchia, lo so che Owen era troppo soft per te. Ma so anche che lo hai fatto per me.

Grazie.

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