Gli Oxbow nacquero un giorno (probabilmente uggiuoso, tuttalpiù un giorno normale) quando il cantante Eugene S. Robison (un ex-pugile ed apprezzato giornalista alto quasi 2 metri) diede al chitarrista Niko Wenner alcune pagine fitte fitte di testi che costituivano il lascito postumo del Robinson, che intendeva poi suicidarsi. Tuttavia quell'esperienza (da cui uscì fuori "Fuckfest", il debutto) risultò così fica che Eugene decise di rimandare il suicidio a tempi non sospetti e fu così che, con l'aggiunta di Dan Adams (alto e dinoccolato, basso fretless) e Greg Davis (basso e grosso, batteria), gli Oxbow nacquero.
"King of the Jews" (titolo fichissimo) è il secondo parto cesareo-discografico dei quattro californiani, da sempre orgogliosi di avere avuto successo (eh...) prima in Europa e poi in America (qui si sono accorti loro solo dopo due dischi usciti rispettivamente per Neurot e Hydrahead), e risale all'anno domini 1992 - millenovecentonovantadue.
Siamo in presenza di un disco che fa male.
Il tipo di disco che entra sottopelle insieme allo stupore per l'iniziale "Daughter" (dissonanze di archi in crescendo - sample maltrattati di sottofondo - poi un clap clap che delinea l'andamento ritmico, con la voce stridula sotto e poi l'attacco di basso chitarra batteria, un noise-crossover viscerale e straniante), che continua tra i lamenti psicomaniacali e lievemente alcoolici di Eugene Robison, che a un po' tutti potrebbe far venire in mente David Yow (ma sì, il frontman dei Gesù Lucertola). Il pezzo prosegue in vertiginosi saliscendi dinamici con dei cori abbastanza ferali e i clapclap che ogni tanto magnificamente rispuntano. Il resto del disco prosegue anche meglio: uno zum-zum di vertigini e tensioni cupe e luminose, intime e non, sensuali (il blues strascinato di "Angel", ad esempio), soundscape acidi come non mai, crescendo dilatati, episodi rumoristici, vicini al drone ("Earth 2" uscirà l'anno successivo, andrebbe notato) e alla musique concrète. Mentre avanza il disco perde progressivamente ogni umano concetto di forma, in una specie di ferale e spiraleggiante discesa verso il nonsisacosa.
A chiudere il tutto "Woe", che sembra ritornare agli spastici ma quasi 'regolari' inizi di "Daughter", poi lunghi minuti di silenzio ed infine la ghost-track "Pannonica", quattro minuti che potrebbero essere dieci, venti o sessanta, rumori che sembrano venire dall'inferno su cui si distende però una chitarra acustica, melodica, si direbbe innocua, che finisce però per lasciare il passo al puro rumore. Il volume è esagerato, la conclusione è silenziosa. Il disco è bello. Dovreste averlo.
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