Pensare oggi ad un Ozzy Osbourne in vita è quasi un miracolo, e questo lo sanno ormai tutti ma pensare oggi ad un disco di Ozzy Osbourne lo è forse di più, e questo qualcuno potrebbe darlo come qualcosa di scontato.
"Ordinary Man" non è il disco di Ozzy Osbourne ma è quello in cui John Michael Osbourne presta la sua inequivocabile voce e il suo straordinario carisma.
Premetto questo poiché incuriosito dal ritorno del "principe delle tenebre" (da cui è riuscito ad allontanarsi solo dopo essersi avvicinato quasi irreparabilmente) dopo aver ascoltato un paio singoli e letto della produzione che ha coinvolto tra i tanti anche Post Malone; per gusti personali la sua presenza non mi ha entusiasmato ma considerato quanto detto in precedenza, ho pensato che un esperimento di natura commerciale in soccorso poteva risultare intrigante, previsione in parte rispettata.
Ascoltando il disco, che presenta un booklet essenziale ma dettagliato nel riportare i testi per ogni brano oltre che descrivere accuratamente i rispettivi ruoli in fase di produzione, è evidente come nella traccia di apertura "Straight To Hell" esploda immediatamente tutto l'Heavy Metal possibile in pieno stile Osbourne. Sono i brani "All My Life" e la super hit "Ordinary Man" ad entrare nel vivo del tema dell'album, una complessa forma emotiva di testamento ("non voglio morire come un uomo qualunque") quasi ad esorcizzare gli attuali timori che imperversano sulla salute e sul relativo futuro di Oz; una condizione difficile da accettare ma resa lieve dalla composizione impeccabile di Elton John (che rimanda a quella di un uomo ben più conosciuto e che andava "a razzo") che contraddistingue la splendida ballad chiusa con un'altra super firma, quella di Slash e del suo tipico assolo finale.
Come detto è presente un lavoro di produzione pressoché impeccabile a cura, tra i tanti, principalmente di Chad Smith (lui, il batterista dei RHCP) e della coppia Andrew Watt / Post Malone. Una produzione a tratti eccessivamente pulita e patinata, distante dalle canoniche produzioni heavy metal dei Black Sabbath dello scorso millennio, anche per via anche di un fisiologico processo di modernizzazione degli strumenti e dei software per la produzione. Watt, che di Osbourne potrebbe essere nipote (classe '90) e che vanta un dignitoso storico di collaborazioni, è l'identikit del rocker dei nostri tempi, fedele alla chitarra ma che piaccia o meno, aperto ad ogni forma di contaminazione e collaborazione; tra le tante spiccano numerosissime produzioni con note star del pop contemporaneo. Ne consegue quindi un approccio melodico in buona parte delle canorità, condite spesso con una eccessiva dose di auto-tune ma accompagnate da un suono robusto e ben mixato, al confine tra il metal del singolo "Under The Graveyard" e l'alternative rock di "Eat Me". Non convince del tutto la coppia di brani di chiusura "It's A Raid" e "Take What You Want" caratterizzata rispettivamente dalle collaborazioni proprio con Malone e col rapper Travis Scott; in particolare nell'ultimo brano pare essere Osbourne ad avere il ruolo del collaboratore anziché il contrario.
Nel complesso è chiaro che si tratta di una operazione commerciale all'insegna dell' omaggio all'icona Ozzy e all'allontanamento dalle paure dell'uomo John; un'operazione nel complesso soddisfacente e che per l'impegno profuso da parte di tutti merita ampiamente la sufficienza. La speranza è di assistere ad un futuro dignitoso e lontano dallo sciacallaggio di quella che è e resterà per sempre un'icona, che non ha bisogno di dimostrare più nulla e quindi di aprirsi ad un nuovo pubblico più incline a generi musicali distanti dal rock e dal metal; un'icona che resterà per tale per sempre, anche "Under The Graveyard".
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