"The symbiosis 
Of murder and lies 
What do I see looking through your disguise?
Fourth reich dementia
Subversion ideals
God only knows what your secret conceals
Who'll be the first offender?
Who will be victimized?
In your perverse agenda
My jekyll doesn't hide"

(Ozzy Osbourne - My Jekyll Doesn't Hide)

Nel divenire incessante del tempo l'uomo consuma i suoi giorni inseguendo uno scopo, un battito d'ali al fluire convulso di una vita impazzita, disorientata bussola che invano cerca un riferimento, un appiglio, che dia ancora senso alla flebile vanità del tutto.
Perduto fra mille futili stimoli e lusinghiere strade si circonda di icone, plasmabili figure della fragile volontà umana, ponendo in esse la ricostruzione del proprio Io, la fortificazione dei propri desideri, l'illusoria giustificazione del proprio operato, utile specchietto per allodole smarrite.
Nell'identità del Mito l'uomo sintetizza dunque la propria identità di Uomo, costellando il proprio tragitto di molteplici simboli e immagini, specchio deformato di una realtà di cui sente compulsivamente il bisogno, l'impellente necessità.

Immersa in un universo di suoni ed idee sfaccettate, ma prevedibili, la dimensione eversiva del Rock riconosce, verso la fine degli anni '60, il suo archetipo più sincero e verace: la libera espressione dell'oscurità dell'anima, incarnata nelle laconiche figure di quattro ragazzi di Birmingham, il cui patto di sangue chiamato Black Sabbath scopriva per la prima volta carte mai svelate, nere verità dell'assurdo del vivere, in un mondo di note damerine intriso di falsi buonismi e retoriche superficialità. Un'innata tensione verso lo struggimento interiore e la percezione tragica dell'esistenza catterizza difatti i primi straordinari album dei Black Sabbath, la più credibile ed onesta constatazione di una realtà cupa ed infelice, che annienta la vita ed avvilisce l'uomo, che proprio in quegli anni ha misurato, con orgoglio impazzito, l'inconcretezza di una società del progresso che andava velocemente in frantumi.

Fulgido cantore dell'angoscia, della morte e del mistero, il diadema sabbathiano ha riconosciuto nell'uomo John Michael Osbourne, cantante del gruppo, l'icona portante di questi temuti valori, in seno ad una personalità complessa, fortemente disturbata, profondamente insicura ed alienata, nel cui passato si celano tristi ricordi di povertà e violenza mai veramente compresi. Ma un dolore insensato consuma la carne, divora lo spirito, e negli eccessi del vizio, della droga e del lusso, si concretizza il disfacimento, si palesa l'annichilimento, che porterà l'uomo alla gloria del Mito (Ozzy), ma che allontanerà la ragione da quella cruda carnale inspirazione che nell'arte nera dei Black Sabbath aveva trovato conforto e sensibile partecipazione emotiva. Non rimane che l'oblio, la terricante solitudine compagna della fine, quando sul finire degli anni '70, l'uomo travestito da mito, Ozzy Osbourne, espulso da quella compagine musicale nella quale aveva faticosamente ricostruito la propria stessa identità di uomo migliore, riscopre ancora una volta il senso di un fallimento dimenticato. La certezza indissolubile di una vita sprecata. 

Ma nel destino esistono regole incomprensibili che intrecciano fili segreti, che smontano certezze e ricostituiscono castelli di speranza, e prima che l'abisso consumi tutto, l'uomo Ozzy si rialza e partecipa di un coro che proprio in quegli anni sembra fargli onoratamente tributo (l'Heavy Metal). I primi dischi del nostro ("Blizzard Of Ozz" e "Diary Of A Madman"), ancora memori di quel "malessere" tanto temuto, ma mai così tanto artisticamente inspirativo, hanno forgiato nello splendore un Hard Rock figlio della malinconia e della sentita visceralità umana, merito anche (e soprattutto) di quell'inatteso genio chitarristico di Randy Rhoads, che più di tutti seppe dare concretezza alle paranoie esistenziali dell'uomo-mito Ozzy. Ma presto il grande castello di speranze ed abbacinanti sogni si sgretola, nelle mani di quel destino misterioso e beffardo che ne aveva plasmato le fondamenta, e che ora scompare come cenere dinanzi all'alito gelido della Morte, che nella violenza del disastro e del fuoco ne strappa il pilastro più importante, il compianto amico Randy.

All'uomo Ozzy non rimane che il Mito di cui si è travestito, per continuare a servire una cena fatta di pietanze sempre più autocelebrative e sensazionalistiche (seppur sempre ottime nella qualità, grazie soprattutto alle grandi possibilità espressive del chitarrista Jake'E'Lee), ma purtroppo non altrettanto genuine nella sincerità emotiva che quei primi due album avevano marchiato così indelebilmente nella propria natura. Un gusto per l'orrore e per il grottesco (mai banale e scontato, comunque), investe l'immaginario estetico-concettuale di Ozzy ("Bark At The Moon", "The Ultimate Sin", "No Rest For The Wicked"), una creatura dello spettacolo oramai sempre più Mito e sempre meno Uomo, in balia di un "costume" forzato che ne prevarica l'ottima (a tratti eccellente) vena compositiva, almeno fino a quando il "personaggio" si scopre stanco e forse invecchiato, ma consapevolmente maturo, intelligentemente adulto.

"No More Tears" segna una svolta colossale, un'inversione pericolosissima (ma splendidamente accolta) verso l'identità ritrovata di Uomo, e molto meno di Mito, in virtù di una concretezza lirico-musicale pragmaticamente umana e profondamente interiore (grazie anche al contributo del ferale ed inspiratissimo chitarrista Zakk Wilde), scevra di quei manifesti orrorifico-spettacolaristici che pure avevano cementificato la sua fortuna (ma alimentato anche tanto dissenso). Un nuovo raggiante sole sembra però oscurarsi dinanzi alla terribile notizia di una malattia mortale ed avvilente: il Morbo di Alzhaimer che gli viene diagnosticato (erroneamente, ma questo lo saprà molto tempo dopo...) subito dopo la registrazione dell'album, e da quel momento nulla sarà più lo stesso. Quella che molti pensano sia stata una furba mossa commerciale, ovvero il "No More Tours" (l'ultima stagione di concerti che avrebbe dovuto annunciare la fine della sua carriera), fu più che altro una coraggiosa presa di posizione di un Uomo che non voleva consumare i suoi ultimi anni lontano dalla sacralità dell'affetto familiare, di cui ora più che mai ne sentiva il bisogno.

Ma il tedio di un'esistenza casalinga seppur agiata, ma forzata, nelle cui spire non s'intravedeva ancora il rintocco ultimo della fine, lo costrinse a ravvedersi sulle sue effettive possibilità espressive ed umane. Una certezza aveva ormai preso forma, la consapevolezza di voler morire "vivendo" di musica, consumandosi in essa. La vera "osmosi" fra Uomo e Mito si concretizzerà definitivamente nella piena rivelazione del sé, nell'intimissima nudità dell'anima che si riscopre fragile e caduca, in quel bellissimo diario di emozioni sentitamente "umane", così pregno di avvolgenti sensazioni carnali e poetiche dissertazioni spirituali, che è l'album "Ozzmosis" (fusione delle parole Ozzy ed Osmosis).

Un'intera opera dominata dall'inquietudine, la profonda malinconia di un uomo che ha intravisto il suo limite, e ne paga le conseguenze, ma che getta ancora un ultimo sguardo di rabbia al mondo sempre più triste che lo circonda, svelandone le più intime ipocrisie e incoerenze ("Perry Mason", "Thunder Underground", "Tomorrow", "My Jekyll Doesn't Hide"), avviluppando il tutto in un vortice d'emozioni spezzate, disperate grida di molteplici facce d'anima sempre più isolate, che nell'abbraccio commosso di un amore antico ("I Just Want You", "Ghost Behind My Eyes", "Old L.A. Tonight"), e nel "testamento" appassionato e lacerante di padre ("Denial", "My Little Man", ma anche la spettacolare bonus track "Aimee"), ritrovano quella primigenia freschezza e quella sincera emozionalità che soltanto i suoi lavori migliori avevano entro di sé. Su ogni cosa svetta la terribile sensazione della caduta imminente, l'inconscia paura del precipizio, la sottile linea di confine che tutto separa, ma che nel sentimento più straordinario che esiste ritrova la strada, rivive la speranza, riscopre la pace ("See You On The Other Side"). Un linguaggio Hard Rock sporco e cupo, delineato dai maestri fidati Zakk Wilde (chitarra) e Geezer Butler (basso), più altri eccellenti compagni di ventura come Deen Castronovo (Batteria), sottolinea un universo fatto di suoni pesanti e crudi, ma anche teneri e passionali, sincero e credibile specchio di un uomo non più mito che scrive, senza saperlo, alcune delle pagine più oscure e toccanti della propria vita.

Quando poi ci si renderà conto che la fine non sarà più così vicina, gli strani meccanismi dell'inerzia prenderanno il sopravvento sulle macerie della carne rimasta e dello spirito consumato, allorquando quel fortificante amore nel quale aveva sempre creduto riterrà opportuno "sfuttarne" la tetra immagine e l'antica natura fino al midollo, per aizzare forse una "mitologia" ormai perduta e svanita nei meandri di giovani che non conoscono, e meno giovani che dimenticano troppo in fretta.

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