Quando viene annunciato che il prossimo album segnerà un ritorno alle sonorità del passato ho sempre paura; paura ovviamente che sarà una copia sterile del periodo d’oro e che non riserverà troppe sorprese. Timore che si è presentato anche all’annuncio di un imminente nuovo lavoro dei Pain of Salvation.

Se nei primi 4 lavori i Pain of Salvation si sono distinti, con ovvie differenze fra un disco e l’altro, per un peculiare progressive metal pienamente farina del proprio sacco e non paragonabile a quello di nessun’altra band dal 2004 in poi hanno abituato i fan a continui spostamenti su altri lidi sempre tuttavia in grado di suscitare un forte interesse verso la band. Prima il sound più orientato verso sonorità orchestrali, folk, classiche, etniche, gospel, ecc. del mastodontico “BE”, poi l’alternative/nu-metal molto levigato e cupo di “Scarsick”, poi i due capitoli di “Road Salt”, entrambi orientati verso un rock molto vintage di stampo anni ’60 e ’70 dai connotati soul, cantautoriali, hard e blues, che hanno fatto storcere il naso a chissà quanti vecchi fan.

Ma Daniel Gildenlöw aveva già le idee chiare, sapeva che si era trattato solo di esperimenti e già diversi anni fa aveva risposto su Facebook ad un fan dubbioso dicendo che la band sarebbe poi tornata al suo sound più caratteristico.

Dopo essersi trovato a ricostruire quasi da zero la band dopo i continui abbandoni di membri storici e dopo aver rischiato di morire per una fascite necrotizzante ecco che, con una nuova formazione e a sei anni dall’ultimo lavoro, Gildenlöw è tornato più forte e determinato di prima e abbiamo finalmente nelle orecchie il nono lavoro dei Pain of Salvation. Un concept forte e determinato chiaramente incentrato sulla recente disavventura clinica di Daniel.

Promessa mantenuta. “In the Passing Light of Day” infatti segna a tutti gli effetti il ritorno al sound dei tempi migliori, in particolare all’approccio che ha contraddistinto capolavori come “The Perfect Element Part I” e “Remedy Lane”: quel caratteristico progressive metal caratterizzato da solidi e rocciosi “muri” di chitarre alternati con momenti più pacati ma sempre estremamente sofferti.

Come detto la paura è che tornando al vecchio sound avremmo ascoltato cose un po’ troppo già sentite senza nulla di nuovo da aggiungere. Invece ecco che notiamo che il disco non esclude affatto influenze provenienti dalle tendenze prog-metal degli ultimi anni, tipo band come i Leprous o perfino spunti provenienti dal djent, con anche a volte riff di chitarra a 7 corde di una durezza insolita per la band. Tuttavia la band non disdegna e non mette totalmente da parte il suo passato più recente e nei momenti più soft qualche spunto che richiama alla memoria i due “Road Salt” c’è sicuramente.

Che si tratta di un gran disco proiettato anche in avanti lo capiamo già soltanto quando parte “On A Tuesday”, con quei riff martellati e distorti quasi di estrazione djent alternati con momenti soffici e sussurrati o con intermezzi orchestrali di ottima fattura fino ai pesanti inserti di tastiere ed effetti distorti della parte finale. “Tongue of God” sembra avere le atmosfere malate tipiche delle produzioni dei Leprous.

La melodia è invece protagonista in “Meaningless”, dominata da incisivi tappeti di tastiere e dal cantato acuto e stridulo di Ragnar Zolberg, che oltre a dimostrarsi un validissimo sostituto di Johan Hallgren si dimostra anche un eccellente contribuente vocale. A prosecuzione del momento “soft” vi è subito la ballata “Silent Gold”, che all’inizio ha fatto storcere il naso a tutti; forse perché è un brano che presenta ancora le reminescenze dei “Road Salt”; è guidata da un pianoforte oscuro e sofferto e dalla voce acuta di Gildenlöw; sinceramente anch’io ci ho messo un pochino ad entrare nel mood, ma poi…

I ritmi però si rialzano subito con “Full Throttle Tribe”, la cui strofa fatta di cupi suoni elettronici e piccoli colpetti chitarristici ricorda un pochino “Scarsick”, prima di sfociare in un ritornello dalla giusta potenza; le taglienti staffilate chitarristiche finali, che strizzano ancora un tantino l’occhio al djent, poi confermano che i Pain of Salvation si trovano a tutti gli effetti nel presente. E sono solo l’anticamera verso il brano più tagliente dell’intera discografia della band; “Reasons” suona infatti tagliente e affilata come mai prima d’ora, addirittura vengono spente del tutto le tastiere (già altrove poco presenti e determinanti) per far pieno spazio alle staffilate chitarristiche.

Con la successiva “Angels of Broken Things” si torna invece su ritmi pacati, con dissonanti pizzicate di chitarra acustica e qualche effettino di sottofondo; la parte finale è intensa ma non dura, con un lungo assolo di chitarra.

“The Taming of a Beast” invece è delicata e sofferta nelle strofe, con il suono di un piano elettrico quasi a ricordare di nuovo “Road Salt” più qualche strano effetto di chitarra, poi viene scaricata nel ritornello una moderata rabbia, con riff duri ma smorzati, non esagerati, ricorda il soft-metal più rarefatto di “Scarsick”. Poi in “If This Is the End” questa dote di saper tenere in ostaggio la rabbia per poi scaricarla con forza si rivela alla massima potenza.

La conclusione è affidata a “The Passing Light of Day”, con i suoi 15 minuti e mezzo il brano più lungo della discografia del gruppo; un brano che si mantiene prevalentemente su toni lenti e sofferti, di chitarra prima e orchestrali nel finale, ma ha al suo interno 4 minuti duri ed energici.

Possiamo dirlo tranquillamente: sono tornati i Pain of Salvation che più piacciono ai vecchi fan; se avevate perso fiducia in loro con le ultime produzioni date una possibilità a questo lavoro e la ritroverete. Lo si può davvero accostare alle loro produzioni migliori senza che vi sfiguri.

È recentemente arrivata la notizia dell’abbandono del chitarrista Ragnar Zolberg, probabilmente perché non contento del compenso ricevuto per il suo lavoro nella band. Dispiace per la sua importanza nella scrittura di quest’album e perché probabilmente sarebbe stato anche in futuro un portatore di nuove idee. Pazienza, tornerà Johan Hallgren ma è bene non perdere fiducia in una band che si è dimostrata più viva che mai.

Carico i commenti...  con calma