Di giorni ce ne sono infiniti, e come non esistono due fiocchi di neve uguali nemmeno le giornate sanno essere identiche, però si possono raggruppare in insiemi: perfette come diceva Lou Reed, cattive come definite dai defunti REM, strane come se le passava Franco Battiato, meravigliose come cantavano gli U2, migliori di altre come strimpellavano i Lùnapop sotto gradito suggerimento degli Ocean Colour Scene, dell'ira come quelle prima di Tonino Valerii e poi di Federico Fiumani, nostalgiche come l'ultimo videoclip di Freddie Mercury, dispari quando le suonava Ludovico Einaudi. Qualunque esse siano però, una certezza resta: si arriva sempre a sera. E' come un'ancora che ti dà stabilita quando sei vagabondo in mare, la getti e resti fermo in attesa dell'alba; basta una coperta e la roulette del domani ricomincia a girare. Così mi corico nel letto, mi addormento, sogno, mi sveglio, il sogno è finito.

Buttati lì in mezzo, ad un'ora sconosciuta e sfuocata della notte, ci sono i Pale Saints. Trascinato fuori dalla finestra, aperta forse per gli ultimi giorni dell'anno, un pensiero se ne torna a Luglio, colmo di giornate che dovevano solo iniziare e finire: tutte così simili, mai tutte uguali. I Pale Saints trovano corpo e forma solo da una cert'ora piccola in avanti fino al sorgere del sole, al di fuori di questo lieve arco temporale non esistono, li cerchi sugli scaffali dei negozi e trovi il vuoto, le radio non li passano, ogni ricerca si infrange sugli scogli finchè c'è luce. Dire di no è mentire. Poi quando inizia un'altro momento, a sole spento, eccoli che si materializzano: Ian Masters (basso e voce), Graeme Naysmith (chitarra) e Chris Cooper (batteria), tre angeli nel buio. A Leeds, ci scommetto, nessuno li ha mai visti in giro di giorno.

"The Comforts Of Madness" esce nel 1990, e nel corso degli ultimi due decenni hanno pompato così tanto le notti magiche di Totò Schillaci che ora, ogni volta che si parla di quell'anno, la mia mente mi ripropone le immagini delle lacrime di Maradona dopo il triplice fischio che chiudeva la finale contro la Germania Ovest di Lothar Matthäus. L'ultimo bel mondiale, uno strascico del positivismo del decennio appena concluso e che mai più si è ritrovato. Ricordo anche il contesto, una casa vacanze a Marina di Massa, e le facce delle persone che avevo lì attorno ai miei 8 anni, facce che dopo aver visto la premiazione mi dicevano di andare da Eugenio a prendere un gelato. Tra parentesi, quando sento "Un'estate italiana" può capitare che mi commuova, mentre sia la Nannini che Bennato han sempre detto che quella canzone faceva cagare. Chiusa parentesi.

Presa ispirazione dai maestri Shoegaze di un passato ancora presente (The Jesus and Mary Chain in piena attività, e i My Bloody Valentine che ancora dovevano pubblicare il capolavoro), i Pale Saints colorano il suono con tinte fortemente Dream Pop in modo da potersi localizzare in un solo scenario: quello del sogno, sempre un'inafferrabile dimensione parallela. La cavalcata iniziale "Way The World Is" è una rumorosa porta aperta verso un mondo che sarà tuo per qualche ora, da "You Tear The World In Two" che richiama quella realtà notturna scombinata, priva delle logiche causa-effetto, a "Sight Of You", sorta alla fine di mille visioni siderali, da "Sea Of Sound" sulla quale mi immagino in sequenza un cavaliere medievale, una maestra d'asilo, un mazzo di rose, un mandarino, allo Shoegaze puro di "A Deep Sleep For Steven" fatto di fotogrammi di persone con gli occhi chiusi e le luci dell'aeroporto, dall'Indie "Insubstantial" al Noise Pop di "True Coming Dream". Queste sono le comodità della follia. Ed ascoltando la voce eterea di Ian Masters su "Language Of Flowers" che cerca di ricordarci com'erano gli 80s, come si fa a non volergli bene anche solo per quasi 3 minuti? Undici stelle, un nuovo disegno, una costellazione. "Time Thief" chiude, alternando il rumore ed il silenzio, come in una perfetta legge fisica.

Un sogno sì, di quelli che ti ricordi a sprazzi quando ti risvegli.

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