Ho un ricordo vago e confuso del “concerto” dei Pan Sonic a cui ebbi modo di assistere qualche anno fa: oscurità in sala, una lunga striscia bianco-blu che ondeggiava convulsa al fragore dei beat, due immobili figuri che, rispettivamente dietro alle loro consolle, tessevano un'unica vibrante melassa sonora fatta di frequenze distorte, bassi tremebondi e pulsazioni minimal-techno.

L'immagine si fa più nitida riascoltando quest'ultimo lavoro del duo finnico, da quasi vent'anni lanciato nell'esplorazione di un'elettronica colta e raffinata che si è saputa evolvere lungo i binari della sperimentazione, da un lato, e del minimalismo più oltranzista, dall'altro.

“Gravitoni” ci appare così come il compendio ideale della carriera di Mika Vainio e Ilpo Vaisanen, che a partire dal loro debutto “Vakio” del 1995, si sono ritagliati un posticino di tutto rispetto nel panorama dell'elettronica recente.

Questo lavoro del 2010 sa quindi cogliere e riorganizzare gli elementi che nel tempo hanno caratterizzato le varie uscite discografiche, e lo fa non suonando come una bieca operazione di riciclaggio, ma semmai come la vigorosa riappropriazione (dopo le deludenti recenti prove) di un suono, di un'identità, del trono, potremmo dire, che ai due finlandesi compete per quanto riguarda la frangia più minimalista dell'elettronica contemporanea.

Sequenze di incespicanti beat meccanici, bassi melmosi e stridenti stratificazioni soniche, esplosioni rumoristiche degne dell'industrial più doloroso: in una parola, claustrofobia. In due: claustrofobia ed asfissia. In tre: claustrofobia, asfissia, soffocamento.

Del resto non vi è grande variabilità nelle sensazioni che possiamo provare durante l'ascolto, la copertina dell'album è lo specchio fedele dei suoi contenuti: nero. Quest'album è nero, è un fiume di catrame (nero) il cui andamento si fa sornione a tratti ed in altri travolgente, quando ovviamente non decide di stagnare in putridi acquitrini dai fetenti miasmi.

Come i due famosi carabinieri (uno che sapeva leggere, l'altro che sapeva scrivere), Vainio e Vaisanen svolgono ruoli perfettamente complementari, e la simbiosi fra digitale ed analogico, fra le oculate basi ritmiche del primo e le gelide modulazioni dei sintetizzatori del secondo, è ormai un qualcosa che rasenta la perfezione (formale), soprattutto se si pensa a come il tutto venga minuziosamente processato con il piglio del più autistico fra i malati autistici.

Chiariamolo: non vi è melodia, “Gravitoni” è un album celebrale, freddo, ostico, che lascia ben poco spazio all'orecchiabilità, tanto che, se è possibile capire il perché un certo tipo di musica venga concepita e creata, non è chiaro fino in fondo il perché bisogna poi ascoltarla. Ma pur nel suo essere un monolite asettico sospeso lungo uno spettro cromatico oscillante fra il nero, il più nero ed il nerissimo, “Gravitoni” sa “intrattenere”, ovviamente se si mastica certa roba.

Il lavoro di riduzione e prosciugamento di tutto ciò che è giudicato come superfluo ha del maniacale, ed alla fine è proprio l'imperativo minimalista a conferire un'aura di intelligibilità al tutto, poiché è possibile guardare dentro a “Gravitoni” senza bisogno degli occhiali a raggi X, essendo già di per sé uno scheletro.

E lo scheletro, beninteso, si muove, con gesta lente e ripetitive, pur concedendosi lunghe pause. Si pensi alla formidabile accoppiata “Wanyugo”-“Fermi”, sorrette da un sommesso pulsare ritmico e lentamente invase da una nera colata lavica che le ammorba partendo da molto lontano. Oppure al poderoso crescendo della complessa “Trepanointi/Trepanation”, che quasi ci pare una versione abnorme ed esagerata di quello che furono gli Autechre in “Chiastic Slide”: è nei momenti più strutturati che l'album si fa convincente, poiché le deflagrazioni rumoristiche di una “Corona” (puro caos) ci suonano quasi sempre eccessive (roba che mette a dura prova anche i più duri d'orecchi), come se fossero l'inevitabile contraltare da anteporre agli altrettanto inevitabili momenti di assenza.

Del resto, i Pan Sonic non fanno mai le cose a metà, e se quando vogliono fare casino sicuramente coronano i loro intenti, c'è da dire che non ci vanno di scartino nemmeno quando desiderano sprofondare nell'ambient più scarno: così scarno che quasi si atteggia a silenzio (da notare come ci si avvicini al niente in brani come “Vainamosen Uni/Vainamoinen Dreams” e “Hades”).

Un plauso, infine, a “Pan Finale”, sicuramente il pezzo forte dell'album, il brano più orecchiabile, auto-compiacente e spudoratamente celebrativo, animato da ritmiche incalzanti e solide geometrie di synth che insieme sono capaci di delineare l'incredibile ultimo crescendo di questo stupefacente tour de force “musicale”, nonché di estrinsecare in un sol colpo tutta l'essenza e la sostanza della musica dei Pan Sonic.

Cibo per la mente.

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